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Il Castello di Avella: le indagini archeologiche sulla rocca.

22/7/2016

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Avella, il Castello visto da nord (A. Sodano)
Di Teresa Cinquantaquattro, Domenico Camardo e Francesco Basile.

1.1 Introduzione
Il complesso monumentale del Castello di Avella (Fig. 1), attestato sui rilievi collinari che bordano ad Est la pianura campana, occupa una collina dai fianchi scoscesi situata sulla destra del fiume Clanis; alle sue spalle si stagliano i monti di Avella, barriera naturale che separa il comprensorio avellano-baianese dalla Valle Caudina. Il sito gode di una posizione strategica di controllo del territorio circostante, a guardia di un itinerario naturale che attraverso il passo di Monteforte Irpino mette in comunicazione la pianura campana con la valle del Sabato e conduce verso la Puglia e la costa adriatica.

La sommità della collina (m 320 s.l.m.) è occupata dalle strutture della rocca, dominata dalla mole di una torre cilindrica su base troncoconica saldata alle imponenti strutture del donjon (Fig. 2). Due cinte murarie, sviluppandosi a diversa quota, cingono le pendici del colle e si ricongiungono sul lato settentrionale, alla base della rocca. La prima, datata ad epoca longobarda (PEDUTO 1984), ha una pianta ellittica e abbraccia una superficie di circa mq 10.000; del circuito si conservano dieci semi-torri (una è inglobata alla base dell’angolo settentrionale del donjon delle quali cinque a sezione troncoconica e quattro di forma tronco-piramidale. La seconda cinta, a pianta poligonale, prevede una porta carraia nell'angolo sud-orientale e nove torri, tutte quadrangolari eccetto quella dell’angolo sud-occidentale della fortificazione, a pianta pentagonale; la superficie racchiusa all'interno del circuito è di circa mq. 21.000. Alcuni saggi esplorativi condotti nel 1987 in occasione di un intervento di restauro hanno fissato la datazione del suo impianto al periodo normanno (XI-XII secolo) ed evidenziato l’esistenza di interventi di ristrutturazione nel corso del XIII secolo IANNELLI 1989).

 Nell'area compresa tra le due cinte murarie, in forte pendio verso sud, sono visibili i resti di numerosi ambienti riferibili a strutture abitative; l’unico edificio conservato in elevato è una grande cisterna a pianta rettangolare, situata immedia-tamente all'interno della cortina muraria interna.
Nonostante rappresenti dal punto di vista monumentale uno dei complessi medievali più rilevanti della Campania, solo in anni recenti il Castello è stato oggetto di esplorazione sistematiche grazie alla disponibilità di finanziamenti destinati alla realizzazione di un parco archeologico. Le indagini, condotte tra il 2000 e il 2001 dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici delle province di Salerno, Avellino e Benevento, si sono concentrate sulla rocca allo scopo di definirne lo sviluppo planimetrico e di tracciare, su basi stratigrafiche, una prima periodizzazione delle sue fasi di occupazione.

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Fig. 1 - Il Castello di Avella
1.2 Le premesse
Secondo una tradizione risalente all’abate Remondini (REMONDINI 1747, p. 273), dal castello sarebbe stato recuperato, prima di essere reimpiegato come soglia nell’attuale centro storico di Abella, uno dei più importanti documenti in lingua osca, ovvero il Cippo Abellano; è evidente che la sua provenienza dal Castello, dove poteva trovarsi già in condizioni di reimpiego, può non essere significativa ai fini della determinazione della collocazione originaria, in questa sede dunque, non tanto in rapporto alla complessa e dibattuta problematica connessa all’ubicazione del santuario di Eracle, cui si lega la testimonianza del cippo, quanto piuttosto in relazione ad una possibile occupazione della collina del castello già nell’antichità, si segnala che nel corso delle esplorazioni della rocca è stata recuperata una quantità non esigua di frammenti di ceramica figurata attica e italiota e di ceramica a vernice nera del V e IV sec. a.C. il carattere di residualità dei reperti, rinvenuti negli strati di crollo del mastio, impedisce per ora di confermare l’ipotesi — peraltro verosimile — di un’occupazione stanziale della collina nel corso di quei secoli.
Prima di esporre i risultati delle esplorazioni, si esaminerà ora brevemente il quadro delle conoscenze archeologiche per il periodo precedente alla nascita dell’insediamento medievale sulla collina del castello. Quest’ultima rappresenta infatti solo una delle tappe che contrassegnarono le vicende insediative dell’alta-media valle del Clanis; fino al periodo tardo-antico il principale nucleo di popolamento del territorio era rappresentato dall’ antica Abella, centro indigeno della mesogaia campana, le cui prime fasi di vita risalgono alla fine dell’VIII — inizi del VII sec. a.C. (CINQUANTAQUATTRO 2000, c.s.). il centro, che raggiunse il suo maggiore sviluppo tra il periodo tardo-repubblicano e la prima età imperiale, rispetto alla collina del castello si localizzava sulla sponda opposta del fiume Clanis, ad una quota inferiore (m 210 s.l.m.); l’abitato, cinto da mura di difesa, occupava una superficie di circa 25 ettari e si disponeva al centro di due vaste aree di necropoli, utilizzate senza soluzioni di continuità fino al periodo tardo-antico. Già a partire dalla piena età imperiale l’abbandono di alcuni settori dell’abitato documenta un processo di disgregazione del tessuto urbano; nel corso del IVsec. d.C. la città appare ormai in decadenza, se, come documenta un’iscrizione rinvenuta a Cimitile (CIL X 1199), Barbaro Pompeiano, consolare della Campania (333 d.C.), è celebrato per aver promosso lavori di ricostruzione, estraendo i materiali necessari dalle cave e non dai monumenti diruti. Nella carenza delle fonti, un’immagine di vitalità del centro riemerge tuttavia all’epoca di S. Paolino, vescovo di Nola, nell’episodio narrato dall’abate Remondini, secondo il quale Avella avrebbe concesso l’acqua delle sue sorgenti al centro di Cimitile, fornendo inoltre la manodopera per la costruzione dell’acquedotto (REMONDINI 1747, pp. 273-274).
Se fenomeni di continuità insediativa, almeno fino al V sec. d.C., si registrano lungo le fasce urbane a contatto con i principali assi della viabilità urbana, il cui andamento si riflette nella maglia stradale dell’attuale centro storico, sembra che nel corso dell’età tardoromana l’insediamento si fosse ormai frammentato in piccoli nuclei insediativi; ad uno di essi è probabilmente da ricollegare l’evidenza rinvenuta in località S. Paolino, sede di una delle due necropoli urbane di il Abella, dove, in un’area precedentemente occupata da sepolture di età Orientalizzante, fu individuato nel corso del 1970 (JOHANNOwSKY 1979, p. 28) un edificio di culto a pianta absidata, intorno al quale si disponevano alcune sepolture: le evidenze giacevano al disotto di uno strato di lapillo riferibile all’eruzione c.d. di Pollena, che fornisce dunque un terminus ante quem per la loro cronologia. Si ricorda, a completamento del quadro descritto, che un’iscrizione sepolcrale (CIL X, 1229; PARMA 2001) attualmente conservata nella Grotta di S. Michele, spesso chiamata in causa in riferimento al problema della Diocesi di Avella, attesta la presenza di un edificio paleocristiano dedicato a S. Pietro e che indizi archeologici a proposito sono emersi nel corso di recenti indagini condotte nei pressi della chiesa omonima attuale, che sorge lungo il decumano maggiore della città romana.
Il periodo tardoantico rappresenta un momento di svolta per le vicende di questo territorio, che fu oggetto delle scorrerie compiute dai Visigoti di Alarico (410 d.C.) e dai Vandali di Genserico (455 d.CD; oltre che alle trasfomazioni endogene su delineate, a questi episodi e alle indubbie ricadute negative degli eventi vulcanici verificatisi tra la fine del V e gli inizi del VI secolo, è da attribuire un decisivo mutamento negli assetti territoriali e nelle forme di organizzazione del popolamento.
 Se è noto l’esito di questo lungo processo, ovvero l’abbandono del sito della città romana e la nascita dell’insediamento longobardo sulla collina del castello, meno chiare ne appaiono le tappe e le dinamiche. Il passaggio tra la tarda antichità e l’alto medioevo è infatti un tema ancora non affrontato in modo sistematico dalla ricerca archeologica e spetta alle indagini future chiarire se l’attuale carenza dei dati sia dovuta alla parzialità delle ricerche o se invece non sia di per sé significativa di un momento di forte crisi nella storia del popolamento dell’ alta-media valle del Clanis.
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Fig. 2 - Aerofotogrammetria con inserimento topografico del castello e delle cinte murarie.
2.  Le notizie storiche
Con la conquista longobarda della Campania Avella si trovò in una delicata posizione di “frontiera”, dovendo fronteggiare la presenza bizantina sulla costa rappresentata dai Ducati di Napoli e Capua. Alla metà del IX sec. con la Divisio Ducatus  Beneventani si venne ad infrangere l’unità dello stato beneventano in due Principati: quello di Benevento, assegnato a Radelchi, che controllava le regioni interne dell’Irpinia, del Molise e del Sannio, e quello di Salerno, assegnato a Siconolfo, che aveva ampi sbocchi sul mare. Nella spartizione Avella fu assegnata al Principato di Salerno (ERCHEMPERTO 1995, cap. 19).
Le prime notizie dell’esistenza di una fortificazione ad Avella risalgono proprio alla metà del IX secolo quando la sua posizione di confine l’espose a numerosi attacchi e scorrerie, come quella compiuta dai saraceni nell’883. Nell’887 Avella fu presa dalle truppe bizantine di Napoli guidate da Atanasio; in quell'occasione fu fatto prigioniero il gastaldo di Suessula Landolfo che era stato lasciato al comando del castello da Guaimario I di Salerno (ERCHEMPERTO 1995, cap. 67 p. 71). Nella Chronica Monasteriii Casìnensis è riportata anche la notizia della devastazione di Avella, insieme con Cimiterium e Sarno. realizzata nel 937 in seguito ad una scorreria degli Ungari.
Non abbiamo notizie dei signori di Avella del periodo longobardo, se non in forma indiretta in due documenti del 1137 (COLUCCI 1999, p. 12), nei quali nella genealogia di un Dauferio, personaggio quindi di nome longobardo, è citato un comes di Avella d’epoca longobarda (d. Daufeii filius q.d. Iohannis, qui fuit filio q.d. Dauferii qui fuit comes de Abelle).
Con l’arrivo dei Normanni nell'Italia meridionale nell’XI sec. e lo strutturarsi del loro potere, anche nel castello di Avella fu posto un feudatario. Se nel periodo longobardo - come hanno rivelato gli scavi - il castello doveva prevedere sul sommo della collina una rocca, probabile residenza del comes, e un villaggio fortificato difeso dalla prima cinta muraria, in questa fase il complesso fu completamente ristrutturato con l’edificazione del donjon sul sito della precedente rocca e con l’ampliamento dell’area protetta attraverso la realizzazione della seconda cinta muraria, posta a difesa di un nucleo abitato.
Il primo feudatario normanno attestato dalle fonti è Aldoyno franco comes de Abelle et uni cx militibus Abersano (R.N.A.M. \7, 1857, pp. 119-120, doc. CCCCXL\/D. L’Aldoino citato in questo documento del 1087 utilizza ancora il titolo longobardo di comes e fa riferimento anche ad alcuni bisconti aut castaidei nostris, parlando di ufficiali del suo seguito che quindi conservano ancora il titolo longobardo di gastaldus. Tale situazione sembra riferibile ad un territorio da poco tempo sotto il dominio normanno, considerato che i successori di Aldoino non utilizzeranno più il titolo di comes. Appare poi sottolineato il rapporto di Aldoino con Aversa, quasi a sancire, attraverso il nferimento alla prima contea normanna d’Italia, la legalità dell’origine del proprio potere.
Discussa è la discendenza di Aldoino da Turoldo Mosca, milite normanno giunto ad Aversa nella seconda metà dell’XI sec., ipotizzata da diversi autori sulla base di tre documenti del 1074 (R.N.A.M. g 1857, pp. 63-64 doc. CCCCXX; pp. 65-66 doc. CCCCXI; pp. 69-70, doc. CCCCXXIII). Tuttavia il legame con la famiglia Mosca ritorna con il successore di Adoino nella signoria di Avella. Infatti le fonti dicono che nel 1129 questo feudo non era più guidato da Aldoino ma da Rainaldo (Il), figlio di Riccardo detto Mosca (CDV 1978, Il, pp. 317-318, doc. 174). Lo stesso Rainaldo compare poi in diversi punti del Catalogus Baronum (Catalogus Baronum 1972, par. 807, 839) che permette di ricostruire il suo dominio su diciassette feudi, di diversa importanza e dimensione. Nessuno dei feudi è esplicitamente indicato come Avella, ma già il Cuozzo (Cuozzo 1984, p. 230) e con ulteriori affinamenti il Colucci (CoLucci 1999, p. 16), identificano Avella nel feudo che il conte di Buonalbergo aveva concesso a Rainaldo, con l’obbligo di fornire all’esercito regio quattro cavalieri (CataiogusBaronum 1972, p. 148).
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Fig. 3 - La rocca vista da sud.
La famiglia Mosca mantenne il controllo di Avella per tutto il periodo normanno, ma la situazione non mutò con l’avvento della dominazione sveva. In un documento del 1222 è attestato come feudatario Rainaldo (III) Mosca (MONGELLI 1957, Il, p. 108, doc. 1495). Questi potrebbe essere identificato con il Raynaldus de Avella, ricordato in un documento del 1237 in cui è contenuto l’elenco dei baroni ai quali Federico II affidò i prigionieri lombardi dopo la vittoria di Cortenuova (HUILLARD-BRÉHOLLES, 1857, p. 613). Ipotizzare che Rainaldo Mosca e Rainaldo d’Avella siano la stessa persona appare sicuramente rilevante, perché presuppone l'abbandono da parte di Rainaldo del cognome materno Mosca per quello toponomastico de Avella, sottolineando in questo modo un radicamento nell’area più forte rispetto al peso storico della famiglia normanna dei Mosca, forse suggerito anche dal mutato clima politico dell’epoca.
Successore di Rainaldo fu il figlio Riccardo d’Avella, di cui sappiamo solo che fu ucciso nel 1256, durante la difesa del castello d’Aversa assediato da Manfredi (JASMILLA 1868, pp. 156-157). La famiglia Mosca sembra essersi immediatamente schierata dalla parte dei nuovi dominatori angioini. Infatti il successore di Riccardo fu Rainaldo (IV) d’Avella, probabilmente figlio di Riccardo, che ebbe alti onori alla corte angioina; egli svolse infatti diverse importanti missioni diplomatiche e nel 1294 fu nominato grande ammiraglio del regno (SCANDONE 1917-1918).
A Rainaldo (IV) d’Avella successe la figlia primogenita Margherita, alla cui morte prematura, agli inizi del XIV sec., i feudi dei de Avella passarono alla secondogenita Francesca, sposa in seconde nozze di Amelio del Balzo. Con Francesca, morta vecchissima nel 1371, si estingueva la famiglia che per due secoli aveva dominato Avella (COLUCCI 1999, pp. 34- 36). Giovanna figlia di Amelio del Balzo sposò Nicola lanvilla, al quale portò in dote la contea, il cui possesso gli fu confermato nel 1380 dalla regina Giovanna i.
Nel 1432 Avella passò agli Orsini conti di Nola. Al capostipite Raimondo successe il figlio naturale Felice che, nel 1459, avendo parteggiato per gli angioini, fu privato di tutti i suoi beni. In questo periodo il castello subì danni in seguito ai terremoti del 1456 e del 1466 che devastarono le aree interne della Campania (FIGLIUOLO 1988, II, p. 132).
Sotto il dominio degli Orsini il castello sembra andare incontro ad un periodo di crisi. In un documento conservato nell’archivio spagnolo di Simancas del 1529 (un anno prima che fosse ceduto a Girolamo Pellegrino per 14743 ducati), il castello di Avella è così descritto: «forteleza con una terra iunta disabitata; sobre un monte sta el castello, mal tratado dunque antiguamente era bello y grande» (CORDELLA1997, p. 58). Dalla descrizione appare chiaro come l’abitato all’interno del castello fosse ormai in profonda crisi e la fortezza versasse in pessime condizioni.
Il dominio su Avella passò nel 1534 ai Colonna; questi edificarono il palazzo baronale ai piedi della collina del castello, nel borgo situato dove era l’Avella classica, contribuendo ulteriormente alla crisi dell’abitato ubicato nella cinta fortificata del castello.
Dopo alcuni trasferimenti di proprietà il castello passò a Carlo Spinelli, conte di Seminara (MUOLLO-COPPOLA 1996, p. 436). Nel 1553 Pietro Antonio Spinelli restaurò la fortezza, come testimoniato da un’epigrafe, oggi conservata all’interno del Palazzo Ducale nel centro storico di Avella e originariamente murata sulla porta d’accesso al castello, riportata anche dal Remondini: «Pietro Antonio Spinello Seminariensi Comiti qui arcem hanc temporem iniuriam collapsam in splendidiorem formam restituit afundamentis» (REMONDINI 1747, p. 160).
Dal 1578 al 1604 il feudo di Avella fu tenuto da Ottavio Cataneo, dal quale passò, fino all’eversione della feudalità, ai Doria del Carretto.
Un documento del 1603 redatto da A. Siviglia fornisce una descrizione dettagliata del castello di Avella nelle sue ultime fasi di occupazione: «Vi è... sopra un monte dalla parte di occidente lo castello con la cittadella e palazzo... nel quale vi è una torre grande con cortiglio. Una sala con otto camere in piano e molta altra comodità. Questa cittadella è murata con dodici altre torrette attorno dette mura per combattere e dentro vi sono da circa cento fochi distrutti e disabitati. Vi è anco la Parrocchia e cisterna grandissima, nella quale al presente vi è acqua freddissima, lo quale castello è fatto con grande artfìcio con mura altissime e grossissima spesa... vi sta lo castellano e visi ponevano li carcerati di mala vita” (CORDELLA 1997, p. 58).
Questa immagine di un abitato ormai morto e dello stesso castello ridotto a prigione e residenza per il castellano. sembra essersi ulteriormente aggravata negli anni successivi. La terribile eruzione vesuviana del 1631 fece sentire i suoi effetti anche sul territorio di Avella, che fu ricoperta da una spessa coltre di cenere, tanto da essere esentata per cinque anni dal versare le tasse al Viceré di Napoli (MARCIANO, CASALE 1994. pp. 13, 28). La cenere vulcanica ricoprì le rovine del castello, che fu gradualmente spogliato nelle sue strutture a favore del nuovo centro abitato di Avella che si andava sviluppando sul sito dell’antica città romana.
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Fig. 4 - Planimetria della rocca (rilievo dell'area scavata: I. Calcagno
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3.1 Le indagini sulla rocca
Prima che fosse avviata l’esplorazione archeologica della rocca le uniche strutture visibili erano rappresentate dai due muri angolari del mastio e dalla torre cilindrica ubicata sull’angolo est del complesso (Fig. 4, in grigio), mentre il resto delle emergenze giaceva al di sotto di un ammasso imponente di macerie che ne impediva completamente la leggibilità. La strategia dell’intervento, che si è rivelato molto complesso, ha dunque tenuto conto di una duplice finalità: la definizione, in via prioritaria, dell’organizzazione topografica della rocca attraverso un intervento esplorativo a carattere estensivo e, successivamente, la comprensione dello sviluppo diacronico del complesso mediante saggi di approfondimento. L’indagine, durata circa un anno, ha interessato un’area di oltre mq. 1000 ca.
Nell’aspetto attuale (Figg. 3-4), alle fine delle operazioni di scavo, la rocca appare organizzata intorno ad una corte centrale di forma trapezoidale (Fig. 4, n. 5) e si presenta come il palinsesto di numerosi e articolati interventi edilizi succedutisi nell’arco di circa sei secoli, dal periodo altomedievale (XI secolo) al XVll secolo. Il limite settentrionale è definito dai due possenti muri ad angolo del donjon bassomedievale che, fondati sulla roccia inglobano la parte terminale della collina racchiudendone l’estremità (q. max. 320 s.l.m.); la loro sommità è percorsa dal cammino di ronda, protetto da una spessa merlatura.
Il muro nord-occidentale termina con una torre a pianta rettangolare (10), conservata parzialmente in elevato; ad esso si addossavano originariamente alcuni ambienti su due livelli che, al piano superiore, prendevano luce da quattro grandi finestroni. All’interno del muro nord-orientale si aprono due porte pedonali, di cui quella settentrionale più ampia. L’apertura, posta circa a m 6 dal piano d’imposta esterno del muro, permette l’accesso all’interno della rocca alla medesima quota della corte; all’esterno doveva essere predisposta una rampa o un castello lineo che, collegato ad un ponte levatoio, doveva permettere di superare il notevole dislivello. L’estremità meridionale del muro è occupata dall’imponente torre di forma cilindrica con base troncoconica (27), alta circa m 30, che sulla base della tipologia architettonica è ricondotta dai vari studiosi ad epoca angioina. Nell’aspetto attuale essa appare saldata dal punto di vista costruttivo alle strutture del donjon e si articola su cinque livelli dei quali, quello inferiore, ospita una cisterna. Il suo coronamento presenta una merlatura al di sopra di beccatelli aggettanti e caditoie per la di- fesa piombante. Dalla corte l’ingresso alla torre avveniva attraverso un’apertura situata ad alcuni metri d’altezza e accessibile mediante scale di legno.
Una seconda porta del tipo a corte interna (n. 13), protetta dalla torre e raggiungibile dall’esterno tramite una rampa, si apre lungo il muro sud-orientale del castello. Ad esso si addossano tre ambienti (14-16) di cui però lo scavo, in questa fase, si è limitato a definire il perimetro. La scala messa in luce all’esterno dell’ambiente 15 indica la presenza di un primo piano anche su quest’ala della roccaforte.
L’angolo sud del complesso è occupato da un bastione a punta (12) di notevoli dimensioni (i due lati esterni hanno una lunghezza di circa m 18), la cui edificazione avvenne nel periodo rinascimentale nell’ambito di una complessiva ristrutturazione del lato meridionale della rocca.
È molto probabile che il bastione inglobi una torre più antica, posta a protezione del quarto angolo del mastio bassomedievale e di un originario accesso. Come si vedrà, infatti, l’intervento rinascimentale comportò, con il rafforzamento del lato sud-occidentale del castello, l’obliterazione di una porta attraverso la quale in precedenza era possibile uscire dalla rocca e raggiungere l’area racchiusa dalla prima cinta muraria.
Allo stato attuale delle indagini è possibile articolare le fasi di occupazione della parte alta della collina del castello in tre periodi.
Il periodo I, altomedioevale, rappresenta il più antico momento costruttivo finora individuato, con l’edificazione di strutture in blocchi di tufo pertinenti almeno in parte a un apprestamento difensivo; nel corso di tale periodo, ma in un momento che è ancora da stabilire in termini di cronologia assoluta, si assiste alla costruzione della prima cinta muraria.
Il periodo Il, bassomedievale, vede una ristrutturazione complessiva della rocca attraverso l’edificazione del donjon, che è realizzato in concomitanza con il secondo circuito murario e dunque con un notevole ampliamento dell’area difesa.
Il periodo III, rinascimentale, registra una modifica parziale della distribuzione planimetrica del complesso, con alcune significative variazioni nelle vie d’accesso e con importanti rifacimenti finalizzati in particolare al rafforzamento dell’angolo meridionale.
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Fig. 5 - Il settore sud-occidentale della rocca: planimetria e sezione (rilievo I. Calcagno).
3.2 Lo scavo
Periodo I: Alto-Medioevo (X-XI secolo)
La più antica fase di occupazione della rocca è rappresentata da una struttura realizzata in grossi blocchi squadrati di tufo, rinvenuta immediatamente a sud del muro nord- occidentale del donjon (Fig. 4, sett. 1). I blocchi, di dimensioni variabili, sovrapposti per filari orizzontali e allettati con malta, recano in alcuni casi segni di cava e presentano incassi quadrangolari per la messa in opera Fig. 8). La struttura, larga circa m 1,20 e conservata per circa m 1350 di lunghezza, è orientata in senso nord-est/sud-ovest. E probabile che essa rappresentasse il muro perimetrale dell’originaria rocca; la sua cronologia, per ragioni di ordine stratifico e sulla base del materiale recuperato nel riempimento del cavo di fondazione (ceramica dipinta a bande) è da porre alla fine del X-XI secolo. Alcune strutture di analoga tecnica costruttiva sono emerse all’interno di una grossa fossa individuata nel pavimento della torre quadrangolare (Fig. 5, n. 10) ma lo scavo, limitato per lo spazio a disposizione, ha impedito di stabilire quale potesse essere il loro rapporto con la struttura già citata.
Alla medesima fase costruttiva è da attribuire un ambiente di forma trapezoidale (Fig. 5, n. 24), addossato alla cortina individuata nel settore 1, che doveva articolarsi su due livelli, al primo dei quali si accedeva attraverso una porta situata lungo la parete sud-est, successivamente obliterata. La presenza di un piano superiore è indiziata dai fori quadrangolari per l’alloggiamento delle travi lignee visibili sul muro sud-occidentale; tramite una porta di cui resta la soglia e parte degli stipiti, dal secondo livello dell’ambiente era possibile passare in altri vani posti a sud.
A questa fase più antica è inoltre riconducibile una cisterna (21) che è stata scoperta ed esplorata nell'estremità ovest dell’ambiente 11, immediatamente a ridosso del muro in blocchi di tufo. Al suo interno, al di sotto dei materiali di scarico delle fasi più recenti, sono stati individuati due distinti livelli di limo legati all'uso della struttura, dai quali proviene ceramica dipinta a bande databile nel corso dell’XI-XII secolo.
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Fig. 6 - Vista della corte da nord.
Periodo II: Basso-Medioevo (metà XII-inizi XIII/XV secolo)
Fase I
Questa fase corrisponde ad un momento di ristrutturazione complessiva della rocca, con l’edificazione del donjon. L’individuazione, nel saggio condotto nel settore 1 Fig. 5) del cavo di fondazione del muro nord-occidentale del mastio, permette — seppur ancora in modo ipotetico considerata la limitatezza dell’area esplorata — di proporne la cronologia tra la metà del XII e gli inizi del XIII sec. (i materiali rinvenuti comprendono ceramica invetriata verde, ceramica dipinta a bande, dipinta sotto vetrina del tipo spiral ware, anfore siciliane del tipo a cannellures).
Lo scavo ha portato inoltre alla luce il limite sud-orientale della rocca, costituito da un muro in pietre calcaree legate con malta, fondato sulla roccia e rinvenuto quasi completamente in crollo. Originariamente doveva raggiungere la medesima altezza delle strutture superstiti del donjon, come dimostrano le ammorsature ancora visibili sull'elevato della torre cilindrica (27). Ai piedi di quest’ultima si dispone la porta orientale, del tipo a corte interna, di cui si conserva in situ una soglia di calcare con gli alloggiamenti per i cardini. Alla porta si accedeva tramite una rampa, ottenuta regolarizzando la roccia naturale, che costeggiava il muro perimetrale.
Meno chiara appare per questa fase la delimitazione del lato sud-occidentale del castello; verosimilmente l’angolo attualmente occupato da una torre a punta (12) di età rinascimentale, doveva prevedere una torre più antica.
A questa fase sembrerebbe da doversi ancora ricondurre, per ragioni di ordine stratigrafico, la porta sud, messa in luce ad ovest della torre 12 e inglobata nelle strutture rinascimentali (Fig. 5). Costituita da piedritti in calcare e sormontata da un arco a tutto sesto con conci radiali di tufo grigio e giallo alternati in maniera non regolare, la porta originariamente doveva aprirsi verso l’area racchiusa dalla prima cinta muraria.
Rimane incerta allo stato attuale delle esplorazioni l’assegnazione alla fase 1 della cisterna ubicata nell'angolo sud- occidentale della corte e realizzata attraverso un’opera di ristrutturazione dell’ambiente 24 della fase alto-medievale. Le pareti interne dell’antica struttura trapezoidale furono infatti rifoderate e ricoperte di intonaco idraulico; l’ambiente fu suddiviso internamente in due nuovi vani (un. 2 e 3), coperti con una volta a botte e separati da un muro dotato di due ampi fornici, che fungeva da rinforzo della cisterna.

Fase II
A questa fase sono da riportare una serie di strutture riferibili almeno a due ambienti Fig. 4, nn. 20 e 23), messi in luce parzialmente nell’area settentrionale della corte. Il loro orientamento è congruente con il lato orientale della rocca. Dal punto di vista stratigrafico tali ambienti sono successivi alla fase 1 e risultano distrutti nel corso del XV secolo.

Fase III
In questa fase si registra la quasi completa distruzione degli ambienti 20 e 23 della fase precedente; immediatamente ad ovest dei resti dei due vani, di cui parzialmente si conservano anche i livelli pavimentali, è stata individuata una grande fossa di scarico dai cui livelli di riempimento provengono materiali ceramici (prevalentemente maiolica monocroma bianca, policroma in verde e bruno, ceramica da fuoco, ceramica dipinta a bande strette, rari frammenti di ceramica ispano-moresca) inquadrabili nel corso del XV secolo, che rappresenta il terminus ante quem per la cronologia degli ambienti.
Contemporaneamente si assiste alla parziale distruzione del tratto del muro in blocchi di tufo della fase alto-medioevale messo in luce nel settore 1. Dai livelli di riempimento della trincea di spoliazione realizzata probabilmente per il recupero del materiale da costruzione, provengono, infatti, materiali cronologicamente omogenei a quelli della fossa su citata.
Si ricorda che, secondo quanto attestato dalle fonti, in questo periodo il territorio di Avella subì danni a causa dei forti terremoti del 1456 e del 1466.
Foto
Fig. 7 - La scuderia vista da est.

Periodo III (XVI-inizi XVII secolo)
Nel corso del XVI secolo si registra la realizzazione di nuovi interventi destinati alla ristrutturazione e alla trasformazione della rocca in palazzo, alcuni dei quali sicuramente riconducibili alle attività edilizie promosse dalla famiglia Spinelli e ricordate dall’epigrafe menzionata in precedenza.
E in questo periodo che l’aspetto militare della rocca viene adeguato alle nuove esigenze derivanti dalla diffusione delle armi da fuoco a media e lunga gittata, attraverso la costruzione sul suo angolo meridionale di un robusto bastione a punta (Fig. 5, n. 12) dotato, lungo il lato sud-est e sud-ovest, di due basse terrazze protette da parapetti. È evidente che il bastione, rivolto verso sud, ha come finalità il controllo del fondovalle e della strada che metteva in comunicazione l’Irpinia interna con Napoli. La realizzazione della torre comportò la tompagnatura della porta sud, alla quale si addossò una scaletta che permetteva di raggiungere dall’interno della corte il terrazzo di difesa.
In questa fase il limite sud-occidentale del castello è occupato da un ambiente (11) di forma rettangolare allungata (m 28x4,50), coperto da una volta a botte ed interpretabile come scuderia (Fig. 7). Esso era illuminato da una serie di finestre a doppia strombatura e riutilizzava come limite occidentale un tratto del muro altomedievale in blocchi di tufo; una stretta porta ricavata nello spessore del muro consentiva il passaggio nell’adiacente torre bassomedievale (10), il cui il piano di calpestio risulta rialzato. All’interno del vasto ambiente lo scavo condotto nel saggio A (Fig. 5) ha permesso di individuare la mangiatoia e un abbeveratoio, che confermano l’interpretazione della struttura come scuderia. L’accesso principale avveniva da est attraverso un portale di tufo (rinvenuto in crollo) che immetteva in un piccolo vestibolo (17) dal quale, procedendo verso nord, si poteva raggiungere, attraverso un altro portale, la corte (5). L’usura di uno degli stipiti del portale dell’ambiente 11, verosimilmente causata dallo sfregare dei mozzi delle ruote, permette di ipotizzare il passaggio di piccoli carri che dovevano trovare ricovero nell’ambiente o semplicemente scaricare il foraggio per gli animali che qui dovevano essere custoditi.
Al di sopra della scuderia si ubicava un secondo livello, raggiungibile attraverso una scala (Fig. 6) di cui sono stati rinvenuti in situ i gradini in lastre di tufo; la realizzazione della scala comportò l’obliterazione di una vasca-cisterna (18) alla quale, nella sua fase d’uso che è ancora da definire in termini di cronologia assoluta, era addossato l’ambiente 19. Al di sopra della vasca, ormai rasata, fu messa in opera una canaletta che, raccogliendo l’acqua dal piano posto al di sopra della scuderia, la scaricava nella cisterna (2-3). Contemporaneamente con la rasatura delle strutture dell’ambiente 19 e del contiguo ambiente 26 si ampliava l’area interna della corte, il cui piano di calpestio risultava regolarizzato con un letto di malta.
Sempre nel corso del XVI secolo è da porre la ristrutturazione del lato occidentale del mastio, con la realizzazione di nuovi ambienti (4, 6, 7, 8).
In attesa che si completi lo studio dei materiali, quest’ultima complessiva fase di ristrutturazione si può in via preliminare porre nella seconda metà del XVI secolo. Non molto tempo dopo il castello fu però definitivamente abbandonato: sui crolli delle strutture è stato infatti individuato nel corso dello scavo un deposito di cenere vulcanica riferibile all'eruzione del Vesuvio del 1631. Questa data rappresenta dunque il terminus cronologico puntuale che sancisce il definitivo abbandono della rocca, cui fece seguito, di contro, lo sviluppo del borgo situato sull'area della città romana di Abella.
FotoFig. 8 - Il muro in blocchi alto-medievale.
NOTA
*Si ringrazia la Dott.ssa G. Tocco, Soprintendente per le province di Salerno, Avellino e Benevento, per aver consentito la pubblicazione di questo studio. Lo scavo, condotto con Finanziamenti CIPE gestiti dal Comune di Avella nel periodo maggio 2000-maggio 2001, è stato effettuato sotto la direzione scientifica di T. Cinquantaquattro dalla Soc. Sosandra a.r.l. La documentazione grafica e i rilievi relativi alle nuove aree d’indagine sono dell’Arch. I. Calcagno; le foto provengono dall'archivio della Soprintendenza. I capitoli 1.1, 1.2 e 3.1 sono a cura di T. Cinquantaquattro; il capitolo 2 è stato curato da D. Camardo, il capitolo 3.2 da F. Basile.


BIOGRAFIA

Catalogus Baronum
1972 = JAMISON E. (a cura di), Catalogus Baronum, Roma 1972.

CINQUANTAQUATTRO T. c.s., Abella, un insediamento della mesogaia
campana: note di topografia, «Annali dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli, sez. Archeologia e Storia Antica» (AIONArchStAnt) n.s., 7.

C.D.N.A. 1926 = GALLO A. (a cura di), Codice Diplomatico Normanno di Aversa, Napoli 1926.

C.D.V. = TROPEANO P.M. (a cura di), Codice Diplomatico Verginiano, Montevergine.

COLUCCI P. 1999, I signori di Avella dall’XI al XIII secolo, “Atti del Circolo Culturale B.G. Duns Scoto”, nn. 23-25, pp. 7-41.

CORDELLA F. 1997, A guardia del territorio. Torri, castelli e fortezze. Il castello di Avella, «Campania Felix», n. 9, pp. 56-60.

CUOZZO E. (a cura di) 1984, Catalogus Baronum Commentario, Roma.

Erchemperto, Storia dei longobardi (sec. IX), ediz. 1995 a cura di A. Carucci, Salerno-Roma.

FIGLIUOLO B. 1988, Il terremoto del 1456, Nocera Inferiore.

HUILLARD-BRÉHOLLES J.L.A. 1857, Historia Diplomatica Friderici Secundi, Paris.

IANNELLI M.A. 1989, Per uno studio del castello di Avella: il contributo della ricerca archeologica, in AA.VV. Il restauro dei castelli nell’Italia Meridionale, Caserta, pp. 159-175.
JASMILLA N. 1868, Delle gesta di Federico II imperatore e de’ suoi figli Corrado e Manfredi re di Puglia e di Sicilia, in G. DEL RE, Cronisti e scrittori sincroni napoletani editi ed inediti ordinati per serie e pubblicati, II, Napoli.

JOHANNOWKY W. 1979, Archeologia, in AA.VV., Avella. Appunti e note, Avella, pp. 17 ss.

MARCIANO F., CASALE A. 1994, Vesuvio 1631. L’eruzione alla luce di nuovi documenti, Napoli.

MONGELLI G. (a cura di) 1957, Abbazia di Montevergine. Regesto delle pergamene, Roma.

MUOLLO G., COPPOLA G. 1996, I castelli, in AA.VV., Storia illustrata di Avellino e dell’Irpinia, II, Pratola Serra, pp. 434-438.

PARMA A. 2001, L’epigrafe di Comiziolo, in D. CAPOLONGO, La questione della Diocesi di Avella, Marigliano, pp. 41-44.

PEDUTO P. 1984, Torri e castelli longobardi in Italia Meridionale: una nuova proposta, in R. COMBA, A. Setta, Castelli: storia e archeologia, Relazione al convegno Cuneo 1981, Cuneo 1984, pp. 391-399.

R.N.A.M.= Regii Neapolitani Archivi Monumenta edita ac illustrata, Napoli 1845-61.

REMONDINI
D.G. 1747, De Nolana Ecclesiastica Storia, I, Napoli.

SCANDONE F. 1917-1918, Rainaldo IV d’Avella grande ammiraglio di Carlo II di Angiò e un celebre processo politico del primo decennio della guerra dei Vespri Siciliani, «Rivista Storica del Sannio», III, pp. 7 ss.; IV, pp. 9 ss.
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Giornate FAI di Primavera 24° Edizione 19 - 20 marzo 2016.

14/3/2016

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 Il 19 e 20 marzo 2016 24° edizione delle "Giornate Fai di Primavera". Le occasioni sono tantissime, con oltre 900 visite ad apertura straordinaria a contributo libero, da Nord al Sud, in 380 luoghi d’Italia. Tanti i siti disponibili anche in Campania, tra i quali Nola con la Casa Palliola, la Biblioteca e il laboratorio di fisica al Seminario Vescovile, l'Eremo dei Camaldoli presso Santa Maria degli Angeli.
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L’evento, giunto alla XXIV edizione, vuole offrire l’occasione di trascorrere un weekend in cui centinaia di migliaia di persone (lo scorso anno sono state oltre 8.500.000) hanno l’opportunità di scoprire angoli di bellezza del paesaggio italiano e i suoi beni culturali, invogliando a comprendere quanto sia importante continuare a curarli con rispetto.
Si tratta infatti del più importante evento di piazza dedicato ai beni culturali organizzato dal Fondo Ambiente Italiano, aperto a tutti ma con corsie preferenziali per gli iscritti al Fai. Ogni regione ha i suoi appuntamenti e anche la Campania ha un ricco cartellone: ecco tutte le aperture provincia per provincia.
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Casa Palliola a Nola
Via San Paolino, 35. Il  palazzo cinquecentesco sorge nel centro storico della città, a poca distanza dalla cattedrale. La famiglia Palliola, tra le più nobili di Noia, è attestata sin dal 1588; tra i suoi membri annovera sacerdoti e gesuiti tra cui Francesco, che mori martire in Mindanao e di cui è in corso la causa di beatificazione. L’accesso all’edificio awiene tramite un atrio che presenta nella volta lo stemma della famiglia Palliola; nel salone di rappresentanza è presente un magnifico altare ad ante settecentesco. La volta è arricchita una tela dipinta dal pittore Angelo Dal Mozzillo. in altri ambienti sono visibili soffitti a cassettoni finemente dipinti, risalenti probabilmente al ‘500. Nell’antica cappella si scorge ancora parte della decorazione, in particolare un volto del primo vescovo di Noia, San Felice.

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Biblioteca e laboratorio di fisica al Seminario Vescovile a Nola
Via Seminario. Il seminario vescovile di Noia, costruito nel 700 per volere dell’illuminato vescovo troiano Caracciolo Del Sole, raccoglie un’importante raccolta epigrafica ed il cosiddetto Cippus Abellanus, un trattato giuridico redatto su pietra tra le città di Noia e di Avella. L’iscrizione in lingua osca è la più lunga mai rinvenuta. Nel seminario sarà possibile visitare la biblioteca storica affrescata, che conserva una notevole raccolta di volumi dal XVI ai XVIII secolo, tra cui una copia dei l’Encyclopedie Franaise e della Letteratura Italiana del Tiraboschi. Quasi sconosciuto è il laboratorio ottocentesco di fisica che conserva strumenti e apparecchiature dell’epoca per io studio delle scienze naturali.
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Eremo dei Camaldoli presso Santa Maria degli Angeli a Nola
Strada Provinciale Visciano. Appena fuori l’area urbana di Noia, si risale la collina di Visciano, dominata dai noccioli. Raggiunta la sommità a circa 350 mt. di altitudine, Io sguardo si apre sull’incantevole scenario dell’Eremo, con la di Santa Maria, le officine e le celle eremitiche dei monaci. Le origini risalgono a parecchi secoli or sono. Correva l’anno 1602. quando Clemente VII, nella bolla diretta al vicario generale di Noia, afferma: “dovendosi per esecuzione dei testamento di Pompeo Fellecchia, fondare un eremo nella Diocesi di essendosi trovato un luogo adatto, ove però l’Eremo non si poteva costruire a perfezione se non si acquistava un certo terreno, chiamato dei Thartiri” spettante al beneficio di 5. Angelo al Monte [...] il Pontefice permette la permuta col rettore di quei beneficio. Il grande protettore di Monte Corona, il Paolo V consente alla suddetta permuta con un breve del 7luglio 1615”. Da allora questo luogo si conserva come un oasi di pace e tranquillità, circondato dai suoi 10 ettari di terreno racchiusi tra mura entro le quali si alternano l’orto, l’oliveto, la vigna, il frutteto ed uno spazio dedicato all’apicoltura.
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Da New York ricordi e poesie di Avella di Eleanor Maiella Imperato.

1/11/2015

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Avella
         
When women clear the last dish from the table
torpor settles like a veil upon my town.
I and my old muse, Memory, meander
through still, deserted streets.
 
​
She points to old doors cracked from sun and rain
murmurs, “Once there was a woman there,
She lost her husband in the war.
Her children live better lives elsewhere.”
 
Just a few steps away, she looks up,
sighs at the sight of yet another
ruined palazzo: wrought iron balconies
rust in sunlight, thick cobwebs drape the door.

 
Memory leads me by the hand
through streets carved out of woods,
noble, ancestral land that in my youth
rambled almost to the railway line.
 

Where orchards once perfumed
the air with peach and apple smells
new houses grow, glass doors shimmer,
roses sit in pots on marble tiles.

 
Memory spies an empty corner
“There was a creaky spigot in the wall,”
she laughs and I hear cold water
splashing into buckets, spilling on our feet.
 
She crosses her breast, then gently
touches crumbling stones, a hollow
that was once a shrine, not a hint of
flowers now or candle lit in prayer.
 

We reach the hill road where the castle reigns,
move to the side to let a car go by.
Memory smiles, disappears
among millennial stones.

©  Eleanor M. Imperato
​
​Avella (traduzione in Italiano)
 
Quando le donne sgombrano la tavola
il mio paese s’avvolge nel torpore.
Io e la mia vecchia musa, la Memoria,
vaghiamo tra strade desolate e mute.
 
Mi mostra porte vecchie spaccate da
pioggia e sole, sussurra, “Qui c’era una
donna, il suo uomo perso in guerra.
I figli vivono meglio altrove.”
 
Fa pochi passi, guarda in alto, sospira quando
vede ancora un altro palazzo malandato:
balconi di ferro arrugginiti al sole,
fitte ragnatele sulla porta.
 
La Memoria mi guida con la mano attraverso
strade dove prima c’era un bosco,
terra nobile e ancestrale che giungeva
quasi fino alla linea ferroviaria.
 
Dove una volta i frutteti profumavano l’aria
con pesche e mele, ora sorgono case nuove,
porte di vetro luccicano al sole,
vasi di rose sul marmo dell’entrata.
 
La Memoria scorge un angolo vuoto
“Nel muro c’era un rubinetto scricchiolante.”
Lei ride ed io sento acqua fredda che schizza
dentro secchi, che spruzza i nostri piedi.
 
Sul suo petto fa il segno della croce, poi
tocca gentilmente le pietre sbriciolate.
Un cavo che al tempo era un altare,
ora, nessuna traccia di fiori o di candele.
 
Vicino la strada di collina dove domina il castello
ci spostiamo per far passare una macchina.
La Memoria sorride, si dilegua
tra pietre millenarie.
 
© Eleanor M. Imperato, traduzione di Patrizia Maiella

Courtyard Bully
 
on a flat stone slab
in my grandmother’s courtyard
I sit, alone
weaving a daisy chain
of ivy vines and clover
a toy dog by my side
 
fragile still from fever and bronchitis
through the hoarseness of my voice
I breathe in summer
spiced with lemon scent
from ripe yellow ovals
nestled in a weave of deep green gloss
 
a harem of bored hens
scratches the hard-packed soil
looks up for a moment
as a rooster struts
crowing his manly pride
feathers and comb puffed out
 
in sudden rage he flies straight to my perch
his talons dig into my thin child’s chest
his beak pecks right between my eyes
warm blood trickles on my lips
his malicious declarations
drown out my raspy cry of pain
 
rescue comes swiftly
as my mother spies
the flurry of wings from a kitchen window
my grandmother vows
to pluck him, season him, simmer him
into a scrumptious Sunday stew


©  Eleanor M. Imperato
​
Bullo da cortile (traduzione in Italiano)
 
sola, seduta sulla lastra di pietra
nel cortile di mia nonna
intreccio una ghirlanda di
margherite, edera e trifoglio,
un cane giocattolo al mio fianco
 
ancora fragile dopo bronchite e febbre
attraverso la mia voce fioca
respiro l’aria d’estate al profumo di
limoni, ovali gialli e maturi
nascosti tra foglie verdi e luccicanti
 
un harem di galline annoiate
gratta il terreno duro e compatto
solleva per un attimo lo sguardo
mentre un gallo cammina impettito
gonfiando piume e cresta
cantando il suo orgoglio maschile
 
con ira improvvisa vola dritto verso di me,
i suoi artigli scavano il mio petto da bambina,
mi becca proprio in mezzo agli occhi
e il sangue caldo scorre sulle labbra,
le sue maligne affermazioni
sommergono il mio grido di dolore
 
il soccorso arriva subito,
quando dalla finestra di cucina
mia madre scopre un turbine d’ali,
mia nonna giura di spennarlo,
di condirlo e cucinarlo a fuoco lento,
uno stufato delizioso per il pranzo di domenica
 
© Eleanor M. Imperato, traduzione di Patrizia Maiella

Cod Liver Oil
​

cold, dark, slippery liquid
offered in a deep-bowled spoon
by an insistent hand,
shimmers like poison
in the morning light
 
grandmother’s urging
in her best, soothing voice
does not mask the taste,
I long to hide, evade
the bitter ritual
 
I surrender to a bribe of sugar
formed into a soft ball of cloth
tied with a string,
a makeshift lollipop
that lingers sweetly
on my assaulted tongue
 
© Eleanor M. Imperato


 Olio di fegato di merluzzo (traduzione in Italiano)
 
liquido freddo, scuro, viscido
offerto in un cucchiaio
da una mano insistente,
brilla come veleno
nella luce del mattino
 
nonna mi esorta
nei suoi modi più dolci,
ciò non maschera il sapore,
vorrei nascondermi,
evadere l’amaro rituale
 
mi arrendo alla promessa
di zucchero raccolto in una
morbida palla di pezza
legata con un filo,
un lecca-lecca improvvisato
che dolcemente indugia
sulla mia lingua aggredita
 
© Eleanor M. Imperato, traduzione di Patrizia Maiella

​Winter Evening
 
wind snaps wires
the feeble light
encircling
our expectant table
fails
 
mushrooms sizzle in a pan
sibilant hags
whispering secrets
filling the sudden blackness
of the room
 
hot coals in a brazier
cradled in soft beds
of ash
sputter their displeasure
as grandfather prods them
into wakefulness
 
their warm sighs
rise
reluctantly
into the winter chill
as we wait for supper
in darkness
softened
by a candle’s breath
 
© Eleanor M. Imperato
​

Sera d’inverno 
​
(traduzione in Italiano)
 
il vento spezza fili
la luce fievole
che circonda
la nostra tavola
si spegne
 
funghi sfrigolano in padella
come malelingue sibilanti
sussurrano segreti
riempiono il nero
improvviso della stanza
 
 
carboni ardenti
comodi nella loro culla
di morbide ceneri
barbugliano scontenti
quando il nonno
li incita alla sveglia
 
i loro caldi sospiri
si sollevano
con riluttanza
nell’aria fredda
mentre noi in attesa
della fragrante cena
siamo al buio
addolcito da un soffio
di candela
© Eleanor M. Imperato, traduzione di Patrizia Maiella

Cenni sulla traduttrice
 
Patrizia Maiella è una traduttrice freelance e vive a Corato, in provincia di Bari, in Italia;. ha ricevuto un'istruzione sia in Italia che negli Stati Uniti. Insieme alle sue sorelle più grandi, Eleanor M. Imperato e Tonia Maiella, collaborerà ad un libro di memorie sulla loro esperienza da immigrati durante gli ultimi anni ’50 e gli anni ’60  nella città di New York.
Patrizia vive all'ombra di un altro castello medievale sulla cima di una collina: Castel del Monte, patrimonio mondiale dell'UNESCO, eretto a metà degli anni 1200 dall'imperatore della Santa Romana Chiesa, Federico II di Svevia. Vivendo in campagna, Patrizia ha la possibilità di vivere una vita salubre in mezzo alla natura. Le sue passioni sono la lettura, il giardinaggio e gli animali.
Patrizia è madre di due ragazzi splendidi, Ester e Nicola, ed è nonna di un altrettanto splendido bambino chiamato Francesco.
E’ stato molto avvincente per Patrizia poter collaborare con la sorella Eleanor. Patrizia ha cercato di trasferire in italiano le stesse emozioni suscitate nelle poesie e nei racconti dell’autrice. Questo lavoro ha permesso alle due sorelle di conoscersi meglio.

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Si ringrazia l'autrice Eleanor Maiella Imperato  per averci concessa l'autorizzazione di pubblicare le sue su riportate opere. 
Ai sensi delle disposizioni di legge sui diritti d'autore, se ne vieta la riproduzione, con qualsiasi mezzo, senza la relativa autorizzazione scritta dell'autrice.


Eleanor Maiella Imperato.
 
È scrittrice e fotografa e ha viaggiato molto, in America e Europa. esplorando anche parti lontane del mondo: Timbuktu, Macau, Beirut, Teheran, Nairobi ... per non parlare della Groenlandia, le Isole Faroe, e Nome, Alaska, dove ha diretto in una gara di slitte trainate da cani! L'Antartide è la sua prossima destinazione.
Tutte queste esperienze hanno alimentato la sua creatività che ha espresso nei suoi lavori. Dopo aver fatto ricerca sul campo in Kenya, Eleanor ha curato, con il marito Pascal James Imperato, una biografia di Martin e Osa Johnson.  Woman's Work, una raccolta di poesie, è stata la sua prima pubblicazione, Purple Sins è in preparazione. Inoltre, sta collaborando con le  sorelle Patrizia e Tonia Maiella alla preparazione di un libro su esperienze italo-americani durante la fine del 1950 e 1960 a New York City.
Lei è attualmente nel Consiglio di Queensborough Community College College Fund, nonché nel Consiglio del Dipartimento Danza al Marymount Manhattan College dove ha conseguito una laurea in inglese e un Master in Liberal Studies alla New York University

"I ricordi della mia città natale, Avella in Italia, sono sempre stati permeati dal calore della famiglia, dai panorami di montagna, e dalla sempre presente vista di un castello medievale su di una collina. A casa a New York, ho scritto poesie e ricordi delle mie prime esperienze ad Avella. Tuttavia, durante le mie visite di ritorno, mi sono divertita a camminare per tutto il paese scattando fotografie. Ben presto divenne chiaro che stavo creando un saggio dei miei sentimenti per Avella; non a parole, ma con le fotografie. Mi sono concentrata su vecchi edifici, vecchie porte, mura fatiscenti. Insieme alla visione di vernice scrostata e di legno grezzo, la luce del sole e le ombre mi parlavano di longevità e resistenza. Ho cominciato a vedere antiche porte e finestre come aperture nei ricordi della mia infanzia ad Avella. Mi hanno fornito un apprezzamento del passato di Avella e la vita dei miei antenati. Inoltre, servivano anche come contrasto al presente, quando fotografavo le porte moderne. Ancora più importante, però, è stata la conferma di quanto significasse veramente per me l’essere nata in questa cittadina. In questo saggio fotografico, cerco di condividere il senso di radicamento nella terra della mia nascita che si incarna nelle vecchie porte e finestre. Sono canali tra la mia eredità italiana e la mia lingua madre italiana, da un lato, e la mia identità americana adottata e la lingua inglese, dall’altro. Spero che gli spettatori, immigrati e non, sentiranno quell’attrazione primordiale che affiora nei nostri cuori, senza sminuire il forte senso d’identità che proviamo per il posto che chiamiamo casa. Cominciando con il castello, il simbolo iconico di Avella e il faro che mi attrae sempre, le foto invitano il pubblico a condividere la mia prospettiva intima su Avella. Come i vecchi portoni, Avella è bella nel suo legno stagionato; è giocosa nei picchi delle sue mura diroccate; è ancora forte e resistente come le serrature e i cardini delle sue porte. Soprattutto, lei è saggia. Lei sa che la vita è un paradosso. Allo stesso tempo antica e giovanile, Avella mostra la rinascita attraverso nuove aperture verso il mondo moderno come illustrato nelle due foto di una porta contemporanea ed un cancello di ferro. L’ultima foto in mostra rappresenta alberi che crescono sopra una porta chiusa a chiave. Ciò suggerisce che la vita sgorga di nuovo da antichi segreti sepolti sotto la terra. Possono sembrare rinchiusi per sempre, ma attraverso l’obiettivo della mia fotocamera ho trovato la chiave, ho aperto le porte della memoria, e sono entrata svelandone il tesoro nascosto”. Eleanor M. Imperato

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LA MOSTRA
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6505 Porta blu'
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0023 Vista con canne
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9935 Cerniera con erba
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4112 Porta grigia storta
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5559 Serratura
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4186 Porta con lenzuola
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5840 Finestra grata
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9670 Finestra verde
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6517 Cancello moderno di ferro
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9756 Porta con alberi in cima

Le poesie e le foto sono tratte da "Doors of Memory" (Le porte della memoria), un libro bilingue (Inglese-Italiano) di Eleanor Maiella Imperato che accompagna una mostra, dallo stesso titolo,presso  il QCC Art Gallery dal 8 Ottobre 2015 fino al 10 Gennaio 2016. 
È un libro di memorie in prosa e poesia dei primi anni di Imperato e visite successive alla sua città natale, Avella, Italia. È anche inclusa una breve panoramica della storia di Avella. Riccamente illustrato con le fotografie in mostra, il libro contiene fotografie supplementari di porte così come molte vedute della città e dei suoi luoghi iconici. La traduzione in lingua italiana è stata  eseguita dalla sorella, Patrizia Maiella, che è una traduttrice freelance che vive in Italia.
La ricchezza delle identità americana e italiana di Imperato si esprime proprio attraverso la metafora di porte che conducono dall'una all'altra.  
Il libro è disponibile presso il QCC Art Gallery, chi è interessato può chiamare il  718-631-6396 premettendo il prefisso internazionale.


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"ABELLA". Un contributo su Avella archeologica di Teresa Cinquantaquattro.

20/10/2015

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Introduzione

1. Il centro di Abella sorge in una fascia territoriale che, per il periodo preromano, è da considerarsi di confine tra il mondo sannitico irpino e il mondo campano (figg. 1, 4 e 5): l’insediamento è localizzato sulla sponda sinistra del fiume Clanis, su uno dei rilievi collinari che definiscono ad est la pianura campana. La posizione geografica, strategica per il controllo del percorso naturale che attraverso il valico di Monteforte Irpino introduce nella valle del Sabato, collegando la Campania con l’Irpinia interna e la Puglia, spiega la lunga vita dell’insediamento, le cui origini possono essere poste su base archeologica tra la fine dell’VIII e gli inizi del VII sec. a.C.
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Figura 1 - Carta dei popoli e centri preromani.
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Figura 4 - Il territorio di Abella
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Figura 5 - Avella e il circondario (Elaborazione grafica di T. Cinquantaquattro). 1. Seminario. 2. Bosco di castello. 3. Castello di Avella. 4. Forestelle Fieno. 5. Campopiano. 6. Avella: necropoli di S. Paolino. 7. Avella: abitato antico. 8. Avella: necropoli di S. Nazzaro. © DR
2. Per il periodo romano Strabone (5, 4, 11) cita Abella insieme a Suessula, Atella, Nola, Nuceria ed Acerrae tra le città della Campania; Plinio il Vecchio (Nat., 3, 63) la include tra i centri della I Regio.
3. Le notizie desumibili dalle fonti antiche risultano piuttosto frammentarie1. Virgilio (A., 7, 740) menziona le mura di Avella per indicare il limite verso l’entroterra del regno di Ebalo, figlio del mitico Telon e della ninfa Sebeto. Servio, nel commento al passo virgiliano (A., 7, 740), ricorda l’antico nome della città, Moera, e il suo fondatore, il mitico re Muranus; inoltre, egli riporta la tradizione secondo la quale i suoi primi abitanti sarebbero stati Greci. Un’origine greca, calcidese, è attribuita ad Avella, come alla vicina Nola, anche da Pompeo Trogo; la notizia è riportata da Giustino (20, 1, 13). Tale tradizione, che la ricerca archeologica ha dimostrato del tutto infondata, è da interpretare come frutto della propaganda politica attuata da ambienti napoletani, allo scopo di creare una saldatura politica tra la città greca della costa e i centri indigeni dell’entroterra2. Il centro di Abella, che coincide con l’attuale Avella, risulta occupato senza soluzioni di continuità dalla fine dell’VIII – inizi del VII sec. a.C. all’età tardo-antica, periodo dopo il quale fu progressivamente abbandonato3.
1 Colucci Pescatori 1984, 339.
2 su tale tradizione: Cassola 1986, 75; Mele 1985, 105-106; Cerchiai 1995, 182.
3 Cinquantaquattro 2000; Cinquantaquattro et alii
2003; Ebanista 2004.
4. Nelle sue prime fasi di vita Abella è da collocare tra i centri indigeni della Fossakultur campana; si rilevano molte similitudini, per quanto concerne la cultura materiale, con l’area sannitica caudina (in particolare con Caudium4) e con i centri della mesogaia campana, come Nola e Calatia. La maggior parte della documentazione archeologica proviene dalle due necropoli situate in località S. Nazzaro e in località S. Paolino, ai lati opposti dell’area destinata fin dalle origini ad ospitare l’abitato (fig. 6). Le evidenze funerarie forniscono un quadro esaustivo delle diverse fasi di vita dell’insediamento, mostrando fino al periodo arcaico lo svilupparsi di una comunità strutturata, in cui emergono fenomeni di verticalizzazione sociale5. Il periodo sannitico, contrassegnato nelle necropoli dal diffondersi delle tombe a cassa di tufo, mostra molte affinità con i centri sannitici dell’interno.
4 cfr. Johannowsky 2006, 296.
5
Cinquantaquattro 2006-2007; Cinquantaquattro 2009b; Cerchiai 2010, 46-48.
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Figura 6 - Avella, pianta della città. © DR
5. Ancora incerte risultano le tappe del processo che portò alla romanizzazione di Avella; è probabile che l’insediamento sia passato sotto il controllo romano già alla fine del IV sec. a.C, come la vicina Nola, che nel 313 a.C. si arrese all’esercito romano (D. S., 19, 101, 3); la conservazione della lingua osca nei documenti pubblici ufficiali almeno fino allo scorcio del II sec. a.C., come dimostra tra le altre epigrafi il Cippo abellano, testimonia che il centro mantenne una certa autonomia, anche se le magistrature della città in quell’orizzonte cronologico erano ormai improntate al modello romano.
6. L’unico episodio bellico tramandato dalle fonti risale al periodo della guerra sociale, circostanza nella quale la città rimase fedele a Roma e per tale motivo, nell’87 a.C., fu incendiata dai Sanniti di Nola6.
6 Gran. Lic., 35, 20, 8 Flemisch
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7. Sulla base delle iscrizioni è stato dedotto che nella prima età imperiale Abella ebbe lo statuto di colonia, retta da duoviri7; sulla base di un passo di Sallustio8, secondo alcuni studiosi la deduzione risalirebbe invece già ad età sillana9 e potrebbe spiegarsi con la volontà di risollevare la città dopo la sua distruzione ad opera dei Nolani10.
7 CIL X, p. 136; 1202; 1204; 1210; 1211; 1216; 1218; 1219.
8 Hist., 3, fr. 97 Maurenbrecher.
9 Mommsen 1883; Degrassi 1958, 320; Gabba 1973, 174; Campanile, Letta 1979, 68, n. 171.
10
Cassola 1992, 113.
8. Con l’ordinamento augusteo, Abella fu inserita nella I Regio11 e iscritta alla tribù Galeria12. Sulla base di quanto attestano le iscrizioni13 anche con la riforma dioclezianea e l’istituzione delle Prouinciae la città fece parte della Campania; Abella compare tra le città beneficiarie degli alimenta elargiti da Traiano14. Il Liber coloniarum definisce Abella municipium e ricorda la distribuzione del suo agro ad opera di Vespasiano o di un suo successore15: Liber coloniarum, L 230, 18-28: Abella, municipium. Coloni uel familia imperatoris Vespasiani iussu eius acceperunt. Postea ager eius in iugeribus militi est adsignatus («Avella, municipio. I coloni o la familia dell’imperatore Vespasiano la ricevettero per suo decreto. Dopo il suo agro fu assegnato in iugeri ai soldati»).
11 Hülsen, RE, I, 1894, s.v. Abella; Nissen 1902, II.2, 754-755; Thomsen 1966.
12 Silvestrini 2001, 272; Taylor 1960, 111-114, 161, 272; Camodeca 2010a.
13 CIL X, 1199; Thomsen 1966.
14 CIL X, 1216; Cassola 1992, 134.
15 Chouquer et alii 1987, 219, n. 14; 230, n. 402.
9. In età romana, il territorio di Abella si estendeva su un’area i cui confini a nord e ad est coincidevano probabilmente con limiti naturali (fig. 4). I monti d’Avella rappresentano a nord la frontiera tra il territorio della città campana e quello di Caudium, che Augusto assegnò a Beneuentum. Con la creazione delle regioni augustee, il limite tra i territori di Abella e Beneuentum si confonde ormai con quello tra la regio I et la regio II16. Il massiccio del Partenio delimita la frontiera orientale di Abella e quella occidentale del territorio di Abellinum, che si estendeva almeno fino alla linea di cresta; H. Nissen riteneva che questo rilievo montuoso costituisse il confine tra la Regio I ad ovest e la Regio II a nord-est17. Il limite orientale del territorio, a sud del massiccio del Partenio, doveva passare in prossimità del passo di Monteforte Irpino.
16 Beloch 1926, 541; Thomsen 1966, 74.
17 Nissen 1902, II.2, 754-755; Kiepert 1996, tavv. XIX e XX; CIL
 X, tav. III.
10. A sud e ad ovest, quindi in rapporto al territorio della vicina Nola, i confini amministrativi sono più problematici. La questione era già stata sollevata da Th. Mommsen il quale, malgrado ritenesse più verosimile la loro pertinenza al territorio di Nola18, decise di inserire le iscrizioni trovate a Roccarainola e Gargani tra quelle di Abella. È probabile infatti che il territorio di quest’ultimo centro non si estendesse molto verso ovest e che il confine tra le due città fosse da collocare subito ad est delle attuali località di Tufino e Roccarainola.
18 CIL X, p. 137.
11. Molteplici lacune sussistono ancora nella ricostruzione topografica dell’abitato di Abella, soprattutto per il periodo precedente l’età tardo-repubblicana. L’insediamento, forse difeso da una cinta muraria in blocchi di tufo già in età sannitica, nel II sec. a.C., in concomitanza con un intervento di ristrutturazione urbanistica, fu dotato di una cinta muraria in opera incerta, individuata sul limite orientale della città. L’intervento di pianificazione urbana è da leggersi probabilmente come effetto dell’avvenuta romanizzazione: una maglia regolare di strade, con tre assi viari nord-est/sud-ovest e una serie di strade ortogonali, scandiva i diversi isolati di abitazione. L’anfiteatro è l’unico fra i monumenti pubblici, alcuni dei quali documentati dalle iscrizioni, che è stato individuato e scavato: sorto nel corso del I sec. a.C. a ridosso delle mura di fortificazione, si trova nell’angolo sud-orientale della città. Non sono stati invece ancora localizzati alcuni monumenti la cui esistenza è nota grazie alle testimonianze epigrafiche: il teatro19, la basilica20 e la piscina21.
19 CIL X, 1217.
20 CIL X, 1208.
21 CIL
X, 1210.
12. Tra la tarda età repubblicana e la prima età imperiale le emergenze più significative provengono dalle necropoli, dove si registrano interventi di monumentalizzazione di alcuni settori funerari: il paesaggio suburbano, lungo gli assi viari che da Abella conducevano, da un lato, verso Nola e la pianura campana, dall’altro verso Abellinum e l’Irpinia, è infatti costellato di monumenti funerari di diversa tipologia; si tratta, fra gli esempi più antichi, di monumenti a camera semi-ipogea con copertura a botte e tre letti funerari22, e, fra quelli più recenti, di mausolei del tipo ‘a conocchia’.
22 Scatozza Höricht 1996.
13. È difficile tentare di ricostruire con esattezza le vicende urbanistiche dell’insediamento dopo tale periodo; dalla documentazione disponibile, sembra che si registri un progressivo fenomeno di disgregazione del tessuto urbano con il concentrarsi delle aree abitative lungo le strade principali. In loc. Santissimo, in un’area centrale dell’insediamento antico, recenti scavi hanno portato alla luce alcuni edifici di carattere monumentale, tra cui un criptoportico, da ricondurre a un’area pubblica della città (il foro?). Il complesso, organizzato su due terrazze poste a diversa quota e separate da un colonnato, fu utilizzato fino al periodo romano imperiale avanzato e, nelle ultime fasi di frequentazione – come attesterebbero i graffiti individuati sull’intonaco di rivestimento di uno degli ambienti – fu sede probabilmente di un luogo di culto paleocristiano (scheda Avella, Santissimo). Sui suoi crolli fu inserita una sepoltura a cassa, segno evidente del decadere del carattere ‘urbano’ di questa parte dell’insediamento già prima che i depositi vulcanici riferibili all’eruzione di Pollena (fine V – inizi del VI sec. d.C.) ne provocassero la definitiva obliterazione.
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14. La presenza di sepolture nell’area della città, mai registrata per i periodi precedenti, è indizio di un evidente fenomeno di ‘ruralizzazione’; pur in un quadro di generale decadenza, la città si rivela tuttavia ancora attiva nel IV e V sec. d.C. Un’iscrizione rinvenuta a Cimitile23 fa riferimento a lavori di ricostruzione urbana ad opera di Barbaro Pompeiano, consolare della Campania nel 333 d.C. e ricorda che i lavori furono effettuati tramite l’estrazione dei materiali necessari dalle cave e non dai monumenti in rovina24.
23 CIL X, 1199 = ILS 5510.
24 Jones et alii 1971, 712-713.
15. Paolino da Nola, agli inizi del V sec. d.C. racconta inoltre che la città, definita devota, concesse l’acqua delle sue sorgenti al centro di Cimitile, fornendo la manodopera per la costruzione dell’acquedotto25.
25 Paul. Nol., carm. 21, 704 sgg.; Remondini 1747, 273-274.
16. In queste ultime fasi di vita l’insediamento, dal quale provengono alcune epigrafi databili tra la fine del V e il VI sec. d.C.26 è ormai probabilmente frammentato in piccoli nuclei insediativi, all’interno dei quali un ruolo catalizzatore devono aver giocato i nuovi luoghi di culto cristiani.
26 Lambert 2008, 17-18; CIL X, 1229 = ILCV 1790; CIL X, 1230 = ILCV 3478; CIL X, 1232
17. Fonti epigrafiche alto-medievali ricordano l’esistenza di due chiese, dedicate la prima alla beata Marina martire, la seconda al beato Pietro (scheda Avella, S. Pietro). Se l’ubicazione della prima resta incerta27, la ricerca archeologica ha di recente individuato i resti della seconda chiesa, in contiguità con l’attuale chiesa di S. Pietro, nel centro storico di Avella.
27 Ebanista 2004, 315-319.
18. Una localizzazione extra-urbana aveva invece la Basilica sorta in località S. Paolino, nell’area precedentemente occupata da sepolture di età orientalizzante-arcaica e di età imperiale (scheda Avella, S. Paolino).
19. Tra la fine del V secolo e gli inizi del VI d.C., gli eventi vulcanici legati alla cosiddetta eruzione di Pollena dovettero avere pesanti conseguenze sull’insediamento, provocandone probabilmente l’abbandono. Gli eventi successivi aprono un altro capitolo della storia di Avella contrassegnato dalla nascita del centro fortificato longobardo sulla collina del Castello, sulla sponda destra del fiume Clanis28.
28 Cinquantaquattro et alii 2003.
20. Per quanto attiene ai luoghi di culto, per l’età preromana non si conoscono attestazioni sicure riferibili ad aree sacre urbane; il rinvenimento sporadico di ceramica miniaturistica da diversi settori dell’abitato antico (fig. 6) potrebbe indicare la presenza di spazi per la ritualità, che in molti casi potrebbero però rivelarsi di ambito domestico29.
29 Cinquantaquattro 2000, fig. 2.

21. All’esterno della città è noto un santuario suburbano in loc. S. Candida, la cui documentazione è compresa tra il VI e il II sec. a.C. (scheda Avella, S. Candida); un secondo è ipotizzabile sulla via Carmignano, che potrebbe ricalcare un percorso viario antico (scheda Avella, Carmignano).
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22. Sempre per il periodo preromano sono noti almeno tre luoghi di culto extraurbani: due sono ubicabili con una certa attendibilità in loc. Campopiano e in loc. Seminario (schede Avella, Campopiano; Avella, Seminario); il terzo, rappresentato da un santuario di Ercole (scheda ubicazione incerta, Santuario di Ercole), non è mai stato individuato, nonostante ad esso sia collegato uno dei più importanti documenti epigrafici in lingua osca, il Cippo abellano.
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23. Ad Ercole rimanda il ritrovamento in località Paenzano (a ca 2 km da Abella, sulle colline che separano questa da Nola) di due statuette di bronzo raffiguranti l’eroe stante, con clava e leonté (fig. 18). Dai dati di scavo non è chiara la relazione tra il contesto di rinvenimento, un’area contrassegnata dalla presenza di piccole fosse (depositi votivi?) dalle quali è stata recuperata anche un’armilla miniaturistica di bronzo con estremità a testa di serpente (III sec. a.C.), e le strutture rinvenute poco più a sud, databili tra l’età tardo-ellenistica e l’età imperiale, riferite dagli scopritori ad una villa30.
30 Cinquepalmi 1988.
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Figura 18. Avella, Paenzano. Statuette di Ercole (Foto Soprintendenza Salerno). © DR
24. Dal quadro illustrato emerge un dato significativo: i luoghi di culto suburbani e extraurbani sembrano non restituire più evidenza a partire dal II-I sec. a.C., momento cruciale per le sorti politiche della città di Abella che, ricordiamo, nell’87 a.C. fu incendiata dai Sanniti di Nola per la sua fedeltà a Roma. Il fenomeno dell’abbandono dei luoghi di culto nel territorio, evidentemente teatro di scontri bellici, mostra una significativa concomitanza con il fenomeno di ristrutturazione urbana, che si traduce nella realizzazione di un piano urbanistico regolare.
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25. Per il periodo romano le divinità oggetto di culto sono individuabili soltanto su base epigrafica: Apollo (scheda ubicazione incerta, Apollo), Iuppiter (cfr. infra sacerdozi, cultores Iouis), Venus Iovia (scheda ubicazione incerta, Venus Iovia). Una aedicula, verosimilmente privata, è attestata epigraficamente (scheda ubicazione incerta, aedicula). L’iconografia dei culti orientali è invece rappresentata da una unica statuetta fittile conservata al British Museum di Londra, di probabile fabbrica egiziana, della regione del Fayoum31. La statuetta riproduce Isis al centro tra Arpocrate a destra e Anubis a sinistra32.
31 LIMC, I.1, s.v. Anubis, n. 61.
32 BMTerracottas, 353 n. D 285; Tran Tam Tinh 1972, 17, 81-82, fig. 26; De Vos, De Vos 1980, 68; Brica
(...)

Sacerdozi e cariche religiose

26. Una sacerdotessa pubblica legata al culto di Venere Iovia sembrerebbe attestata da un’iscrizione non più reperibile (scheda ubicazione incerta, Venus Iovia).
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27. Un augur è attestato in CIL X, 1203, un’epigrafe su un blocco di calcare oggi collocato nel cortile di P.zo Pescione, al di sopra un capitello: [---a]uguri tr(ibuno) mili[tum…] / [---Ae?]mili[us] + [---] («(A...), augure, tribuno militum (…) [Ae?]milius [---]»). H. Solin, che ha ripubblicato l’epigrafe datandola alla prima età imperiale (Solin 2007, 5317-5318, n. 2), ipotizza possa trattarsi di un sacerdozio municipale accompagnato dalla carica del tribunato militare.
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28. L’esistenza di un collegio di cultores Iouis è ricordata da un’epigrafe33 attualmente conservata ad Avella là dove la vide Th. Mommsen, ovvero, davanti al Palazzo Ducale in piazza Municipio (fig. 7); sarebbe stata rinvenuta nella regione suburbana detta di Cortalupino. Si tratta di una base di statua in calcare bianco, originariamente collocata in un luogo pubblico (probabilmente il foro) della città romana, come si evince dalla clausola finale dell’iscrizione34: N(umerio) Pettio, N(umerii) f(ilio), / Gal(eria tribu)s, Rufo, / IIuir(o), q(uaestori) aliment(orum) / q(uaestori) pec(uniae) publicae/ curatori frument(i), / cultores Iouis / ob merita eius. / L(ocus) D(atus) D(ecreto) D(ecurionum) («A Numerio Pettio Rufo, figlio di Numerio, della tribù Galeria duoviro, questore degli alimenta, questore del denaro pubblico, curatore dei frumenta, i cultores Iouis per i suoi meriti. Luogo dato per decreto dei decurioni»); sul lato sinistro fascio a rilievo (fig. 7).
33 CIL X, 1216; Beloch 1964, 413, n. 518; Remondini 1747, 264; Napolitano 1922, 105, n. XXVIII.
34 Petraccia Lucernoni 1988, 80-81, n. 109.
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Figura 7 - Avella, iscrizione dei cultores Iouis (faccia e lato sinistro) (Foto Soprintendenza Salerno).
29. L’iscrizione è databile in età traianea/post-traianea. Il nomen Pettius è di origine campana (attestazioni su epigrafi o bolli oschi ad Acerra e Capua) e identifica a Nola un senatore vissuto al tempo delle guerre annibaliche35; un N. Pettius è attestato inoltre come padrone di uno schiavo di Delo36.
35 Liv., 23, 43, 9-44.
36
De Caro 1997b, 458 sgg.
30. Nell’iscrizione CIL X, 1209 è citato un magister augustalium37; Mommsen la inserisce tra i tituli riferiti ad Abella, anche se fu rinvenuta a Gargano, vicino Roccarainola, nella diocesi di Nola: Diis Manib[us] / Q(uintus) Calidius Epaphro/ditus, mag(ister) Aug(ustalium), / quaestor / uiuos sibi et / Critoniae Amar[y]l/lidi uxori. / Hoc m(onumentum) s(iue) s(epulcrum) est h(eredem) n(on) s(equatur) («Agli Dei Mani. Quinto Calidio Epaphrodito, magister Augustalium, questore, da vivo, per se e per la moglie Critonia Amarillide. Questo monumento o sepolcro non spetta agli eredi»). L’iscrizione è databile ipoteticamente alla fine del I o al II sec. d.C.
37 Duthoy 1978, 1286-1287, n. 257.
31. Un’epigrafe38 ricorda invece un augustalis bisellarius. Si tratta di una base di statua oggi ubicata davanti al P.zo Ducale di Avella: N(umerio) Plaetorio Oniro, / Augustali / Bisellario, / honorato ornamentis / decurionalibus, / populus Abellanus / aere conlato, quod / auxerit ex suo ad / annonariam pecuniam / (sestertium) (decem millia) n(ummum) et uela(rium?) in thaeatro (sic) / cum omni ornatu / sumptu suo dederit / L(ocus) d(atus) d(ecreto) d(ecurionum) («A Numerio Pletorio Oniro, augustale bisellario, onorato con gli ornamenti (insegne) dei decurioni, il popolo abellano, raccolto il denaro, poiché contribuì ad aumentare con il suo denaro la subvenzione dell’annona con 10.000 sesterzi e diede a proprie spese il velario con ogni ornamento nel teatro. Luogo dato per decreto dei decurioni»).
38 CIL X, 1217 = ILS 5651.
32. Testimonianza del culto di Ercole sarebbe un’iscrizione non riportata nel CIL, ma da J. Beloch39. La stessa epigrafe è riportata da G. Remondini40. Il Mommsen la espunse come falsa (CIL X, p. 7*, 166*: M(arcus) Lucceius, M(arci) f(ilius), / Anaximander, praef(ectus) / Abellae / Hercul(i) dicauit).
39 Beloch 1964, 413, n. 515 a; I.N. 1871. Atripalda, Villa de Sanctis.
40
Remondini 1747, n. CXXXV, p. 265-266, da Atripalda.
33. In CIL X, 1197 è riportata un’iscrizione vista da Mommsen nel monastero dei Padri Minori dell’Annunziata, nella quale si cita un’edicola (scheda ubicazione incerta, aedicula).
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34. ETÀ PREROMANA
Luoghi di culto suburbani
Avella, Carmignano
Avella, S. Candida
Luoghi di culto extraurbani
a. Luoghi di culto pubblici
Ubicazione incerta, santuario di Ercole gestito in comune da Nola e Avella
b. Luoghi di culto (statuto incerto)
Avella, Campopiano
Avella, Seminario
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35. ETÀ ROMANA
Luoghi di culto extraurbani
Avella, Cerreto
Luoghi di culto d’ubicazione incerta
a. Luoghi di culto pubblici
Ubicazione incerta, Venus Iovia
b. Luoghi di culto privati?
Ubicazione incerta, aedicula
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ETÀ TARDO-ANTICA
Luoghi di culto urbani
Avella, S. Pietro, chiesa
Avella, Santissimo
Luoghi di culto extraurbani
Avella, S. Paolino, basilica
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Bibliografia
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Napolitano 1922: L. Napolitano, Memorie archeologiche e storiche di Avella, Castellammare di Stabia 1922.
Nissen 1902: H. Nissen, Italische Landeskunde, Berlin 1893-1902.
Petraccia Lucernoni 1988: M.F. Petraccia Lucernoni, I questori municipali dell’Italia antica, Roma 1988.
Remondini 1747: G. Remondini, Della Nolana Ecclesiatica Storia, II, Nola 1747.
Scatozza Höricht 1996: L.A. Scatozza Höricht, «Ideologia funeraria e società ad Avella nel II sec. a.C.», in C. Montepaone (a cura di), L’incidenza dell’antico. Studi in memoria di Ettore Lepore, III, Napoli 1996, 489-518.
Silvestrini 2001: M. Silvestrini, «La diffusione della tribù Galeria in Irpinia e Apulia», in E. Lo Cascio, A. Storchi Marino (a cura di), Modalità insediative e strutture agrarie nell’Italia meridionale in età romana, Bari 2001, 267-283.
Taylor 1960: L.R. Taylor, The Voting Districts of the Roman Republic, Roma 1960.
Thomsen 1966: R. Thomsen, The Italic regions from Augustus to the Lombard invasion, Rome 1966 [ristampa anastatica dell’ed. Copenhagen 1947].
Tran Tam Tinh 1972: V. Tran Tam Tinh, Le culte des divinités orientales en Campanie en dehors de Pompéi, de Stabiae et Herculaneum, Leiden 1972 (EPRO 27).
Teresa Cinquantaquattro, ex Direttore dell’Ufficio archeologico e dell’Antiquarium di Avella (AV), attualmente Soprintendente per i Beni archeologici della Puglia con sede a Taranto.
© Collège de France, 2013
Condizioni di utilizzo http://www.openedition.org/6540
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DOORS OF MEMORY di Eleanor M. Imperato

10/10/2015

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"Attraverso l'obiettivo della mia macchina fotografica ho trovato la chiave per aprire le porte della memoria che conducono ai tesori del passato". 
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"Le porte della memoria". Ricordi di Avella dell'artista italo-americana  Eleanor Maiella Imperato, in mostra presso la Galleria d'Arte Queensborough Community College -  222-05 56th Avenue, Bayside, New York 11364 - dal 8 ottobre 2015 al 10 gennaio 2016.
Insieme alla mostra di 25 fotografie originali di vecchie porte e finestre, un saggio della stessa autrice che vuole rendere omaggio al suo paese natale, Avella. Le porte e le finestre simboleggiano i suoi ricordi, gli antenati e la sua infanzia, trascorsa tra splenditi panorami di montagna e le mura di un abitato dominato dal castello medievale sulla collina.
​Un arco aggraziato sopra una porta blu invecchiata dal tempo, un'apertura buia fiancheggiata da pareti che assomigliano a fregi su un antico tempio in rovina, un portale che rivela una scena che ricorda un dipinto rinascimentale, ecc., e per ultima una foto di arbusti che fuoriescono da una porta chiusa a simboleggiare che la vita nasce di nuovo da antichi segreti sepolti sotto la terra. "Attraverso l'obiettivo della mia macchina fotografica ho trovato la chiave per aprire le porte della memoria che conducono ai tesori del passato". 
"I ricordi della mia città natale, Avella in Italia, sono sempre stati permeati dal calore della famiglia, dai panorami di montagna, e dalla sempre presente vista di un castello medievale su di una collina. A casa a New York, ho scritto poesie e ricordi delle mie prime esperienze ad Avella. Tuttavia, durante le mie visite di ritorno, mi sono divertita a camminare per tutto il paese scattando fotografie. Ben presto divenne chiaro che stavo creando un saggio dei miei sentimenti per Avella; non a parole, ma con le fotografie. Mi sono concentrata su vecchi edifici, vecchie porte, mura fatiscenti. Insieme alla visione di vernice scrostata e di legno grezzo, la luce del sole e le ombre mi parlavano di longevità e resistenza. Ho cominciato a vedere antiche porte e finestre come aperture nei ricordi della mia infanzia ad Avella. Mi hanno fornito un apprezzamento del passato di Avella e la vita dei miei antenati. Inoltre, servivano anche come contrasto al presente, quando fotografavo le porte moderne. Ancora più importante, però, è stata la conferma di quanto significasse veramente per me l’essere nata in questa cittadina. In questo saggio fotografico, cerco di condividere il senso di radicamento nella terra della mia nascita che si incarna nelle vecchie porte e finestre. Sono canali tra la mia eredità italiana e la mia lingua madre italiana, da un lato, e la mia identità americana adottata e la lingua inglese, dall’altro. Spero che gli spettatori, immigrati e non, sentiranno quell’attrazione primordiale che affiora nei nostri cuori, senza sminuire il forte senso d’identità che proviamo per il posto che chiamiamo casa. Cominciando con il castello, il simbolo iconico di Avella e il faro che mi attrae sempre, le foto invitano il pubblico a condividere la mia prospettiva intima su Avella. Come i vecchi portoni, Avella è bella nel suo legno stagionato; è giocosa nei picchi delle sue mura diroccate; è ancora forte e resistente come le serrature e i cardini delle sue porte. Soprattutto, lei è saggia. Lei sa che la vita è un paradosso. Allo stesso tempo antica e giovanile, Avella mostra la rinascita attraverso nuove aperture verso il mondo moderno come illustrato nelle due foto di una porta contemporanea ed un cancello di ferro. L’ultima foto in mostra rappresenta alberi che crescono sopra una porta chiusa a chiave. Ciò suggerisce che la vita sgorga di nuovo da antichi segreti sepolti sotto la terra. Possono sembrare rinchiusi per sempre, ma attraverso l’obiettivo della mia fotocamera ho trovato la chiave, ho aperto le porte della memoria, e sono entrata svelandone il tesoro nascosto”. Eleanor M. Imperato

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Eleanor Maiella Imperato. È scrittrice e fotografa e ha viaggiato molto, in America e Europa. esplorando anche parti lontane del mondo: Timbuktu, Macau, Beirut, Teheran, Nairobi ... per non parlare della Groenlandia, le Isole Faroe, e Nome, Alaska, dove ha diretto in una gara di slitte trainate da cani! L'Antartide è la sua prossima destinazione.
Tutte queste esperienze hanno alimentato la sua creatività che ha espresso nei suoi lavori. Dopo aver fatto ricerca sul campo in Kenya, Eleanor ha curato, con il marito Pascal James Imperato, una biografia di Martin e Osa Johnson.  Woman's Work, una raccolta di poesie, è stata la sua prima pubblicazione, Purple Sins è in preparazione. Inoltre, sta collaborando con le  sorelle Patrizia e Tonia Maiella alla preparazione di un libro su esperienze italo-americani durante la fine del 1950 e 1960 a New York City.
Lei è attualmente nel Consiglio di Queensborough Community College College Fund, nonché nel Consiglio del Dipartimento Danza al Marymount Manhattan College dove ha conseguito una laurea in inglese e un Master in Liberal Studies alla New York University


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AVELLA NON È LONDRA!

10/10/2015

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​So bene che Avella non è Londra e che l’Antiquarium non è il British Museum, come so che gli inglesi per realizzare il loro museo hanno dovuto acquistare, nonché depredare, i loro reperti gelosamente custoditi.
Questo per Avella non è successo, essendo essa stessa parte dell’antica storia occidentale, i suoi reperti, per sua fortuna, li ha avuti e li ha nel sottosuolo. Facciamo soltanto attenzione, però, a non metterceli sotto i piedi.
Quando si pensa, come quasi tutti oramai ad Avella, che per valorizzare il suo patrimonio storico e paesaggistico c’è bisogno di eventi straordinari e spettacolari, in cui compare anche se soltanto da contorno, allora significa che si è persa la bussola, cioè si è persa la direzione giusta che, secondo me, è quella di utilizzare le risorse, umane, economiche e tecnologiche, nell'avviare ricerche e studi nuovi per dare pari dignità alla storia di Avella. Non possiamo accontentarci soltanto di quel poco che già sappiamo! Si possono avviare tante iniziative, tutte belle e riuscite, ma se non ci si attiene a questo obiettivo, allo spegnersi dei riflettori, Avella resterà al buio, come prima!
Oggi Avella è un proliferare di iniziative, nascono e si moltiplicano associazioni e siti web in nome della causa. Ciò è molto positivo, però, ahimè, tutti rivendicano uno spazio sulle antiche “mura” per un rendiconto in termini di immagine, economico, ecc.
Ma queste “sacre”mura avellane, secondo me, continueranno a sgretolarsi sotto il peso di questa proliferazione senza freno, se non si segue la rotta nella direzione giusta. Mi domando, inoltre, se la loro storia, sin qui raccontata, sarà sufficiente a che un giorno non si venga a noia, lasciando soli gli avellani e i loro “tesori di latta”.
Tanto è stato fatto, in questi ultimi due anni, ma i successi ottenuti, con i mezzi utilizzati, non deve far credere che la strada giusta sia la spettacolarizzazione,  a tutti i costi, degli eventi.
 Per me la rotta da seguire attraversa soprattutto il mare della “ricerca” senza la quale, una volta spente le luci,  si resta nell'acqua paludosa.
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A proposito di Beni Culturali. Quando si perde la bussola.

28/9/2015

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"Museo in Piazza" presentato in Avella da Clanioinarte, un progetto  co-finanziato con fondi Piano di Azione Coesioni, dal 26 al 27 Settembre 2015.
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​Reperti archeologici svenduti, esposti male e messi a repentaglio in piazza a contorno di altre eventi programmati per le due serate.
Lo raccontano anche le foto che girano sul web. Eccone una selezione dal profilo facebook di Marianna Pedalino che lo dimostrano inequivocabilmente. 

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​Vetrine incustodite, appoggiate in precario equilibrio (vedasi zeppette sottostanti) su una base improvvisata, fili elettrici volanti e neanche un minimo di spiegazione sui reperti.
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Adone secondo Vittorio Sgarbi, Endimione secondo Tomaso Montanari, la scultura di Antonio Corradini acquistata dal Metropolian Museum di New York, è il pretesto per lo scontro vero: il modo di gestire i nostri beni culturali.

27/9/2015

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Sgarbi è critico d'arte, storico dell'arte, politico, Montanari insegna Storia dell'Arte all'Università Federico II di Napoli.
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La scultura di Antonio Corradini, nato a Venezia nel 1968 e morto a Napoli nel 1752, al centro della polemica.
Sgarbi. Chiediamo il rientro dell'Adone di Antonio Corradini.
Uno dei capolavori della scultura barocca italiana, l’Adone di Antonio Corradini, sotto il falso nome di Endimione, è stato acquistato dal Metropolitan Museum di New York. La vendita è stata propiziata da uno studioso, Tomaso Montanari, sempre molto critico sull’amministrazione dei beni culturali e ostinato sostenitore della pertinenza delle opere al «contesto» in cui sono state concepite. Tanto più strano che, davanti a un capolavoro di questa evidenza, di cui egli ha osservato le affinità con le sculture del Duomo di Este e con alcuni gruppi per l’Elettore di Sassonia, l’Apollo e Marsia ora al Louvre, Zefiro e Flora ora al Victoria and Albert Museum, non abbia ritenuto di proporne l’acquisto allo Stato italiano, anche in considerazione dei suoi stretti rapporti con l’ex ministro dei Beni Culturali, Massimo Bray, per la riforma del Codice di tutela. Rimarrà sempre misterioso perché egli non si sia prodigato per questo prioritario obiettivo, e abbia anzi cercato di coprire questa omissione, di gravità morale e culturale, prima che penale, non esibendo regolari certificazioni di esportazione del ministero (che evidentemente non ci sono), ma una buffa e irrilevante carta di una presunta «agenzia internazionale», Art Loss Register, richiesta (a pagamento) dallo stesso mercante che ha venduto la magnifica scultura al Metropolitan. Il «documento» è semplicemente una tentata legittimazione postuma dell’acquisto; ma in realtà rivela un’infedele e approssimativa ricostruzione della provenienza dell’opera, attribuendone la proprietà, nel 1950, a un collezionista, Ottavio Fabbri, che a quella data aveva 4 anni. Maldestro tentativo assai rivelatore, per confondere le acque rispetto al momento reale dell’esportazione.

Ancora, ricerche più recenti indicano nella notevole collezione di Zaccaria Sagredo, con molti dipinti di Guercino, Bernardo Strozzi, Pietro da Cortona, Salvator Rosa, Piazzetta, Tiepolo, vari marmi di Giusto Le Court, di Antonio Gai, una «Velata» e due statue coricate, Adone e Venere del Corradini. Il Sagredo muore nel 1729 e le sculture sono ricordate in un inventario del 1755 e in un secondo del 1763, sempre con la stima assai alta di 450 ducati, a indicarne la considerazione. Sappiamo che Montesquieu fu tra i rari viaggiatori stranieri che visitarono Palazzo Sagredo, accompagnato dall’amico Antonio Conti. Montesquieu scrive: «Conti mi ha accompagnato presso il signor Sagredo, a Santa Sofia, che ha una casa molto bella, ornata di dipinti e sculture»; e immediatamente dopo fa riferimento all’Adone del Corradini. Se si considera che sullo scalone di Palazzo Sagredo vi sono ancora la Primavera e l’Autunno di Francesco Bertos, appare anche più forte l’opportunità che un’opera memorabile come l’Adone, una volta ritrovata, venga assicurata al patrimonio artistico italiano.

Per questo è opportuno che le persone che hanno veramente a cuore il nostro patrimonio artistico e la sua integrità esprimano con la loro firma la volontà che con tutti i mezzi, dalla spontanea disponibilità del Museo americano, alle indagini della magistratura che con questo documento non possono ignorare la notizia di una ipotesi di reato, il capolavoro di Antonio Corradini ritorni in Italia e sia destinato alle collezioni d’arte veneziane con l’alto richiamo europeo della “perfetta” critica del barone di Montesquieu

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​Adone è una delle più complesse figure di culto nei tempi classici. Simboleggia la giovanile bellezza maschile ma anche la morte ed il rinnovamento della natura. 
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Paolo Veronese, Venere e Adone, olio su tela, Madrid, Museo del Prado.

Endimione, personaggio della mitologia greca. Pastore, cacciatore o principe, talmente bello che fu addormentato per essere eternamente contemplato da Selen, dea della Luna.
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"Endimione e Selene" (1713), di Sebastiano Ricci.
Montanari. Altro che il mio Endimione, Sgarbi guardi in casa sua all'Expo.
​Da settimane, e su ogni mezzo di comunicazione, Vittorio Sgarbi sta portando avanti una violenta, odiosa e disperata campagna di diffamazione contro i primi firmatari (Francesco Caglioti, Andrea De Marchi, Daniele Benati, Marco Tanzi e alcuni altri) di un appello ai ministri Dario Franceschini e Stefania Giannini sottoscritto da oltre duecento storici dell'arte di tutto il mondo. Eccone il testo integrale:
«L’improvvisata convocazione di una congerie insensata di capolavori dell’arte italiana, provenienti dai luoghi più disparati, nel padiglione fieristico di Expo “Eataly”, è il culmine di due processi che si intrecciano inesorabilmente: la mercificazione e la privatizzazione del patrimonio culturale e la distruzione materiale e intellettuale del contesto. Ed è crudele il paradosso per cui sotto le bandiere della biodiversità si massacra ogni residuo legame delle opere d’arte con il loro territorio.
La raffica di banalizzazioni commerciali irresponsabilmente affidate a un Vittorio Sgarbi è solo la più visibile manifestazione di questa deriva.
Chiunque abbia a cuore il destino del patrimonio artistico italiano non può assistere in silenzio alla spirale che è stata imboccata negli ultimi tempi, con un crescente grado di improvvisazione. Troppi dimenticano o fingono di dimenticare quanto queste opere siano fragili, così come è dimostrato dagli incidenti piccoli e grandi che anche in tempi recenti non sono mancati. Ma al di là del repentaglio cui vengono sottoposte le opere, preoccupa il radicarsi di un atteggiamento diffuso che nel perseguire l’evento a tutti i costi dimentica le vere sfide poste dalla manutenzione e dalla salvaguardia del nostro inestimabile patrimonio: che sono l’aumento e la redistribuzione di una vera conoscenza fondata sull’innovazione del sapere, cioè sulla ricerca.
Si dimentica che solo dalla conoscenza critica può nascere una vera crescita civile: quel «pieno sviluppo della persona umana» che la Costituzione segna come obiettivo finale della tutela del patrimonio storico e artistico della Nazione.
La grandezza dell’arte italiana è nel tessuto inestricabile, radicato in un territorio unico al mondo, per cui le opere maggiori e i contesti minori si illuminano a vicenda. Nell’insegnamento quotidiano noi docenti universitari di storia dell’arte cerchiamo di trasmettere ai nostri allievi la consapevolezza di questa complessità, l’importanza di capire le opere in relazione al contesto per cui sono nate, nei confronti specifici che ne rivelano le qualità uniche e irripetibili. Le mostre si stanno imponendo come orizzonte sempre più esclusivo del ‘consumo’ delle opere d’arte, per la fame di eventi che governa la società dello spettacolo: ma non è di queste mostre-zoo che abbiamo bisogno.
Lo sradicamento selvaggio dal contesto delle opere d’arte, considerate alla stregua di meri prodotti da commercializzare, si è fatto sempre più frenetico e irragionevole, e promette sviluppi anche più sconsiderati, su scala globale. Questa deregulation – di cui la kermesse Tesori d’Italia rappresenta un emblema eloquente – deve indurre in tutti un serio esame di coscienza.
Chiediamo dunque al ministro Dario Franceschini di introdurre nel Codice dei Beni Culturali articoli che disciplinino più severamente la movimentazione delle opere d’arte in Italia, garantiscano la tutela dei manufatti più fragili, restituiscano alle soprintendenze l’ultima parola, escludano le pressioni politiche, impongano tempistiche e progettualità, arginino le improvvisazioni dilaganti per cui non mancheranno mai l’imbonitore di turno e il politico complice.
Il grande circo delle mostre rende evidente che la Repubblica non sta affatto tutelando il patrimonio storico e artistico della Nazione: gli storici dell’arte delle università italiane chiedono fermamente che essa ritorni a farlo».
La risposta di Sgarbi a questa analisi non è stata sul piano dei contenuti culturali, ma su quello dell'aggressione alla reputazione dei singoli firmatari. Nel mio caso, sono qua a dovermi difendere da un suo articolo scritto per «Sette» il 31 luglio scorso. Sgarbi mi accusa di aver curato due mostre su Bernini; e di aver studiato e pubblicato una scultura italiana poi acquistata dal Metropolitan Museum di New York.
Quelle mostre sono state il frutto di decenni di studio, erano ospitate in musei dello Stato (Palazzo Barberini a Roma, il Bargello a Firenze), erano imprese di ricerca ma erano anche pensate per il grande pubblico, hanno accolto seminari delle migliori istituzioni culturali a livello mondiale e sono state giudicate esemplari in recensioni apparse sulle maggiori riviste scientifiche. E se Sgarbi volesse comprendere quale abisso intellettuale separa queste due mostre dalla rassegna di Eataly, sono prontissimo a spiegarglielo, pubblicamente e con santa pazienza.
L'Endimione (e non Adone) di marmo che per primo ho riconosciuto e pubblicato come opera dello scultore veneto del Settecento Antonio Corradini è certificato in Francia già nel 1950. Ho avuto notizia della statua quando si trovava nel Principato di Monaco, e l'ho studiata a Londra. Era dunque un'opera uscita da molti decenni dal patrimonio artistico italiano, e nulla avrei mai potuto fare per farvela rientrare: perché – come Sgarbi sa perfettamente – chi studia e pubblica un'opera non acquisisce alcun potere per condizionarne la vendita.
Trovo molto triste esser costretto ad usare questo spazio per difendermi da insinuazioni risibili, quando il vero tema sarebbe l'enorme occasione perduta con Expo. Con tutto il denaro – pubblico e privato – gettato nelle infinite e inutili mostre milanesi si sarebbe potuto restaurare e mettere in funzione uno dei mille complessi monumentali collegati a tenute agricole che oggi versano nel degrado e nell'abbandono in tutta Italia. Così il nesso arte-nutrizione sarebbe stato davvero onorato, si sarebbe creato lavoro stabile e tutta questa imbarazzante retorica del nulla avrebbe almeno lasciato qualcosa di positivo e permanente. Ma si è fatto tutto il contrario.
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Gioia e sofferenza, a Milano tutto il mistero Chagall

26/9/2014

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Palazzo Reale ospita "Una retrospettiva 1908-1985". Duecentoventi opere che ripercorrono la vita e la complessa vicenda umana del grandissimo artista, perennemente sospeso tra i propri tormenti interiori e la capacità di superarli attraverso una pittura tutta vitalità e colore. (Valentina Tosoni , la Repubblica.it)

"Chagall ha riscoperto il mistero e il carattere sacro della natura, primitivo e materno: un luogo in cui uomo è animale vivono insieme, in pace, sotto l'occhio di Dio e sotto una grande luna, come era nel momento della creazione". Così il grande intellettuale rumeno Mircea Eliade definì l'arte di Marc Chagall, in particolare osservando il  "Il poeta disteso", dipinto creato nell'estate del 1915, durante la luna di miele, dopo il matrimonio con Bella, l'amata moglie scrittrice. E questa è una delle 220 opere raccolte nell'esibizione che ha preso il via a Milano, dal titolo "Marc Chagall. Una retrospettiva 1908-1985", aperta fino al 1 febbraio 2015.
"La più grande retrospettiva dedicata a questo artista negli ultimi 50 anni in Italia", sottolineano gli organizzatori, di ciò ci si rende subito conto dopo aver iniziato a percorrere le prime sale di Palazzo Reale che la ospita, ricche di capolavori. Il viaggio a tappe prende il via dal primo dipinto  "Le petit salon" del 1908, realizzato a Vitebsk, nell'odierna Bielorussia, passando per il periodo parigino delle avanguardie, segue poi  la fase americana, paese dove dovette fuggire per nascondersi dal nazismo, e si conclude con il ritiro finale nel sud della Francia.

Incontrando "Il compleanno" del 1915, opera del Moma che raramente emigra dal museo newyorkese, o "La passeggiata" del 1917-18, ci si rende conto di quanto il linguaggio di Chagall appaia moderno e si distingua dal resto dei movimenti di avanguardia , certuni ormai datati e rilegati a rappresentare una periodo preciso. Le opere scelte da Claudia Zevi e Meret Meyer, mettono in evidenza la visione lirica, carica di stupore e purezza, la personalissima e immediatamente riconoscibile rappresentazione del reale, che in composizioni come "La mucca con l'ombrello" del 46, diventa anche  "sur-reale", come la definì l'amico Apollinaire. Nonostante Chagall visse lo sconvolgimento delle due guerre, subendo scossoni dalla storia che lo costrinsero più volte alla fuga e all'esilio, non perse mai la voglia di dipingere e di trasformare la sofferenza in colorate scene d'amore e armonia. In opere come L'ebreo in rosso, La caduta dell'angelo o La Madonna del villaggio, si riconoscono tutte le componenti della sua poetica: la tradizione ebraica, da cui viene la bidimensionalità tipica delle illustrazioni dei testi sacri, la cultura popolare russa, densa di fantasia e colori accesi, e l'esperienza delle avanguardie che lo rese libero di ritornare all'immaginazione della sua infanzia.
Chagall morì il 28 marzo 1985 e fu sepolto a Vence, villaggio nell'entroterra di Nizza, dove aveva vissuto per parecchi anni. La cosa più straordinaria di questo artista è che, nonostante le tante perdite subite, i suoi quadri comunicano una sensazione di gioia e la capacità di conservare comunque serenità è forse la sua eredità principale. Ma il suo grande entusiasmo per la vita non lo rese cieco di fronte al dolore: in molte opere, dimostra la consapevolezza della sofferenza del suo tempo e del suo popolo. Questo aspetto del suo lavoro è presente al Museo Diocesano, che ospita una sezione della retrospettiva con la mostra "Marc Chagall e la Bibbia". 60 tra dipinti, sculture e disegni che sono, come ha detto il cardinale Scola: "Una bella doppia occasione per Milano, per superare la frammentazione e avere una ricchezza plurale".

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Augusto, Roma celebra il bimillenario.

18/8/2014

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A 2mila anni dalla scomparsa dell'imperatore, fondatore anche di un nuovo modello estetico-culturale, le Scuderie del Quirinale gli dedicano una grande mostra, come nella Capitale non accadeva dal 1937. Duecento opere, molte arrivate dai più grandi musei d'Europa. Si potrà vedere fino al 9 febbraio
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Una grande esposizione dedicata ad Augusto. Non accadeva dal 1937, Era Fascista, verrebbe da dire, pensando al periodo trascorso e alle possibili ragioni della prolungata assenza. Ora, in occasione del bimillenario della morte, le Scuderie del Quirinale riuniscono, da domani al 9 febbraio prossimo, 200 opere straordinarie, prestiti eccezionali dei maggiori musei internazionali, in grado di illustrare sia la figura di Augusto quale uomo politico ricco di carisma e intuito, sia il periodo storico che seppe forgiare ispirando nuovi linguaggi estetici.
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Statua togata di Augusto capite velato come Pontefice Massimo (da via Labicana)
"Erano decenni che cercavo di fare questa mostra, ma non c'ero ancora riuscito", spiega Eugenio La Rocca, fino al 2008 (e per quasi un decennio) Sovraintendente ai Beni Culturali del Comune di Roma, visibilmente soddisfatto nel vedere la realizzazione del proprio progetto espositivo contraddistinta da un così alto livello di qualità. "E' stato un grandissimo sforzo da parte di tutti visti i tempi e i costi che richiede un'operazione del genere", prosegue lo studioso, che in questa sua ultima fatica è stato supportato dalla collaborazione di Claudio Parisi Presicce, Annalisa Lo Monaco, Cecile Giroire, Daniel Roger. Augusto è stato uno dei protagonisti dell'immaginario fascista, prosegue, la sua figura è stata usata a fini di propaganda e ciò ha creato, fin dall'immediato dopoguerra, una radicata reazione avversa. Solo studi più recenti hanno ristabilito la verità storica, lontana dalla patina edulcorata elaborata nel Ventennio. Ottaviano Augusto era un uomo di grande forza e scaltrezza, che aveva combattuto e vinto tutti i rivali, come lui impegnati nella  conquista del potere assoluto, arrivando infine alla divinizzazione della propria persona. Tanto che il percorso di questa mostra bellissima ed emozionante si apre e si chiude proprio con l'apoteosi dell'imperatore dopo la morte, sopraggiunta il 19 agosto del 14 d.C.
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Cammeo di Augusto (cd. cammeo Blacas)
In mezzo ci sono la vita e le lotte del nipote adottivo di Cesare, l'unico capace di porre fine ai sanguinosi decenni di guerre interne che avevano consumato la Repubblica romana e a inaugurare la nuova stagione politica dell'Impero. Il suo principato, durato oltre quaranta anni, fu il più lungo che la storia di Roma avrebbe mai ricordato e l'Impero sotto di lui raggiunse la massima espansione. Per raccontare un'epoca che ha avuto un impatto decisivo (e millenario) sulla civiltà occidentale, ecco i capolavori custoditi nelle più importanti collezioni pubbliche e private, in molti casi mai visti in una mostra italiana. Molti preziosi reperti vengono dal Louvre, che hanno collaborato con le Scuderie per realizzare della rassegna.
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Cammeo con l’imperatrice Livia velata accanto ad un altro personaggio della famiglia imperiale
"Dopo questa edizione romana, 'Augusto' andrà al Grand Palais - dice La Rocca - Il supporto dei musei francesi è  stato un passo fondamentale, perché in conseguenza a ciò il Louvre ha aperto i suoi forzieri". Opere di mirabile bellezza e importanza si susseguono dunque nei vasti spazi della sede espositiva, per questa volta messa alla prova dai marmi monumentali. Augusto è presente per la prima volta nelle sue più famose raffigurazioni. Ci sono l'Augusto pontefice massimo da via Labicana, conservato a Palazzo Massimo alle Terme, e l'Augusto di Prima Porta dei Musei Vaticani, simbolo indiscusso e ormai archetipo dell'idea stessa di romanità.  La Rocca ha voluto accostarlo al suo modello classico, il celeberrimo Doriforo del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, canone per eccellenza della perfezione scultorea di età classica, a testimonianza del nuovo linguaggio iconografico elaborato dalla cerchia imperiale. Pur guardando al mondo greco, prende vita una logica diversa, che non è classicismo, ma la cultura augustea che sarà punto di riferimento per l'epoca napoleonica come per quella fascista.
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Statua togata di Augusto velato come Pontefice Massimo (da via Labicana)
Prestito del Museo di Atene e per la prima volta in Italia, ecco lo splendido bronzo (era una statua equestre) dell'imperatore restituito dal mar Egeo, mentre proviene da Meroe (Nubia, Egitto) il meraviglioso ritratto del British Museum. Una serie di raffigurazioni, che ne  illustrano il processo di idealizzazione, sono poi affiancate ai busti dei numerosi partenti, la moglie Livia, la sorella Ottavia, i nipoti Marcello,  Lucio Cesare e Gaio Cesare, adottati per garantire la successione sul trono di Roma, ma morti precocemente. C'è anche una testa che potrebbe raffigurare Cleopatra, regina d'Egitto e acerrima nemica,  a documentare il gusto egittizzante dell'epoca. Il tema della nuova struttura classica cui dette vita Augusto attraversa l'intero percorso espositivo e si manifesta  in  bellissimi gruppi scultorei  e in eccelsi documenti dell'arte decorativa.
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Statua loricata di Augusto, cd. Augusto, Prima Porta.

 Primi fra tutti i rilievi Grimani, raffiguranti animali selvatici intenti ad allattare i propri cuccioli immersi in un paesaggio bucolico, eccezionalmente riuniti dalle attuali ubicazioni (il Kunsthistorisches Museum di Vienna e il Museo di Palestrina), e quindi  il gruppo frontonale dei Niobidi, originale greco riallestito in età augustea negli Horti Sallustiani a Roma, qui ricomposto accostando le due statue in arrivo dalla Ny Carlsberg Glyptotek di Copenhagen alla statua di fanciulla ferita conservata al Museo Nazionale Romano.  Oltre agli arredi delle domus vesuviane e ai gioielli di corredo, è addirittura stupefacente la nutrita selezione dal preziosissimo tesoro degli argenti di Boscoreale, custoditi al Louvre.
La mostra si conclude con l'inedita ricostruzione di 11 rilievi della decorazione di un monumento celebrativo (eretto originariamente in Campania), e oggi  divisi tra la Spagna e l'Ungheria: vi è narrato, con grande efficacia, uno scontro navale della battaglia di Azio, il fatidico scontro che nel 31 a.C. mise fine alla guerra civile tra Ottaviano e Marco Antonio aprendo la strada al definitivo trionfo del princeps.
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Clipeus Virtutis, Scudo votivo di Augusto
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    A cura di Armando Sodano

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