L’Annunciazione del Beato Angelico
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L'opera n. 2
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"Maria e l’angelo si somigliano e sono speculari anche nei gesti - nell’istante in cui il messaggero si inchina a una mortale, e la donna riceve lo spirito santo dentro di sé. Ma non sono identici. L’angelo rivela la presenza di Dio, che è luce - e irradia tutto intorno, batte sulla parete di fondo e illumina ogni cosa. L’angelo non ha corpo. Anche Maria ha perso consistenza. Guardate la sua strana posizione, il panneggio quasi concavo del vestito là dove dovrebbe esserci l’osso del ginocchio. Scelta da Dio, dopo avergli detto di sì, sarà mediatrice e salvatrice dell’umanità. Però resta una donna, ed è nel suo corpo reale che tutto si compie. Così la luce la investe, ma non la attraversa. Guardate la parete alle sue spalle. C’è un’ombra. Maria fa ombra. All’Angelico ormai basta una pennellata per dire che cosa distingue gli angeli dagli esseri mortali". (Melania Mazzucco)
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La cella n. 3, nel corridoio este del convento domenicano di San Marco, a Firenze, è un monolocale con una porta e una finestra. Eppure là dentro, sulla parete, c'è l'opera più radicale di uno dei pittori più facile e insieme più complessi della storia dell'arte, che in quarant'anni di attività fu assai prolifico benché, come ci raccontava Vasari, essendo uomo di santa vita non lavorò mai per denaro: frate Giovanni da Fiesole, al secolo Guido di Pietro detto Guidolino, insomma, il Beato Angelico. In San Marco il Beato Angelico dipinse una cinquantina di opere, anche servendosi di collaboratori, assistenti e seguaci. Le più personali non le trovate però nei corridoi, nei refettori o nelle stanze dei laici, ma nelle celle dei frati. Anche Angelico era frate domenicano. Dipingeva, in sostanza, per se stesso. Per questo queglia ffreschi rappresentano un caso rarissimo nella storia dell'arte, paragonabile a quello di Tintoretto nella Scuola di San Rocco: creati in libertà, con poveri strumenti materiali (pigmenti di origine vegetale, leganti organici, pennelli fatti con peli di animali), rivelano quanto profondo, altissimo e sottile possa essere il pensiero di un artista. La cella n. 3 oggi è bianca e vuota. Forse anche intorno alle 1443, quando ci entrò il primo frate, Ci sarà un letto, un inginocchiatoio, un braciere, qualche utensile per la vita quotidiana. |
Lo spazio bianco di Beato Angelico nella sua annunciazione "astratta".
Due colonne seminascoste dalle ali dell'angelo e gi archi della volta sono tutto sono ciò che resta dell'architettura. Lo spazio è indeterminato e ossessivo, come in un sogno.
Né un esterno né un interno: una cavità intima, che evoca la
cella reale, e il reale chiostro del convento. Sulla sinistra, un rettangolo
verde allude al giardino della casa di Maria, a Nazareth, o al giardino
dell’Eden da cui fu espulso Adamo (poiché l’Annunciazione avvia la redenzione
dell’umanità dal peccato di Adamo). Anche il tempo è astratto. L’evento infatti
non accade al momento del racconto di san Luca: è il suo ricordo. Ciò dimostra
la presenza anacronistica di un testimone vissuto secoli dopo, il martire Pietro
da Verona dalla testa sanguinante. Indossa il saio bianco e nero dell’ordine
domenicano, lo stesso del pittore e del frate della cella n. 3 cui l’opera è
destinata. La scena è come una visione: l’immagine mentale dell’Annunciazione.
Cioè Pietro (il frate, il pittore) sta meditando sul mistero centrale del
cristianesimo: l’Incarnazione di Dio nel ventre di una donna.
La Vergine e l’angelo appaiono, come emergendo dal bianco dell’intonaco. Sottili, diafani, inverosimili. Non parlano. Il pittore presuppone il dialogo Vangelo — lo allude. L’economia dei segni è totale, i colori pochissimi. Rosso il sangue cranio del martire e lo spirito santo che arde in forma di verde il prato immaginario e le piume delle ali dell’ angelo; legno l’umile panchetto Maria; oro le aureole e i capelli; rosa l’abito di Gabriele e di Maria. Ma è il bianco che domina. Bianco il libro, bianco il bianco il soffitto, bianco il muro sullo sfondo. Ha lo stesso colore dell’intonaco della cella che circonda il dipinto, dipinto stesso prima che il pittore vi disegnasse e colorisse le figure. Il focus dell’affresco infatti è proprio quella parete bianca, abbacinante, fra l’angelo e Maria. E uno spazio vuoto, come una pagina, che attira l’occhio e dunque il pensiero: spazio di contemplazione, rivelazione. Ma Maria non deve avere il manto blu, come il cielo stellato? Forse Angelico non ha avuto il tempo di finire il dipinto: fu chiamato dal papa, partì per Roma. Lasciò l’abito di Maria allo stato di preparazione. Eppure in un’opera rarefatta come questa ogni scelta è indizio di un significato. Maria e l’angelo si somigliano e sono speculari anche nei gesti — nell’istante in cui il messaggero si inchina a una mortale, e la donna riceve lo Spirito Santo dentro di sé. Ma non sono identici. L’angelo rivela la presenza di Dio, che è luce — e irradia tutto intorno, batte sulla parete di fondo e illumina ogni cosa. L’angelo non ha corpo. Anche Maria ha perso consistenza. Guardate la sua strana posizione, il panneggio quasi concavo del vestito là dove dovrebbe esserci l’osso del ginocchio. Scelta da Dio, dopo avergli detto di sì, sarà mediatrice e salvatrice dell’umanità. Però resta una donna, ed è nel suo corpo reale che tutto si compie. Così la luce la investe, ma non la attraversa. Guardate la parete alle sue spalle. C’è un’ombra. Maria fa ombra. All’Angelico ormai basta una pennellata per dire che cosa distingue gli angeli dagli esseri mortali. Lui, invece, ormai veniva considerato un angelo. Già pochi anni dopo la morte lo chiamavano “pittore angelico” (proprio nel senso che, come gli angeli, vedeva Dio), e beato. Dal 1982, per volontà di Giovanni Paolo II, frate Giovanni è beato davvero. |
L'artista
Guido di Piero, detto il Beato Angelico (1395 ca-i 455) entra nel convento di San Domenico a Fiesole con il nome di Fra’ Giovanni. Diventa tra i maggiori pittori fiorentini del primo Rinascimento. Affresca il convento di San Marco a Firenze. Dal 446 è a Roma per lavorare alla Cappella Niccolina per papa Niccolò V; dipinge poi nella cattedrale di Orvieto. Muore a Roma. Viene proclamato Beato da papa Wojtyla
anche se già dopo la sua morte era stato chiamato Beato Angelico sia per l'emozionante religiosità di tutte le sue opere che per le sue personali doti di umanità e umiltà. Fu il Vasari, nelle Vite ad aggiungere al suo nome l'aggettivo "Angelico", usato in precedenza da fra Domenico da Corella e da Cristoforo Landino. Il frate domenicano cercò di saldare i nuovi principi rinascimentali, come la costruzione prospettica e l'attenzione alla figura umana, con i vecchi valori medievali, quali la funzione didattica dell'arte e il valore mistico della luce. |
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Questo sito viene aggiornato senza fissa periodicità e soltanto quanto necessita segnalare notizie ai visitatori e pertanto non può essere coinsiderato un "periodico" e nemmeno un "prodotto editoriale" in quanto gratuito e non pubblicato in forma cartacea.
© StudioErreSodano di Armando Sodano
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