"Aringhe affumicate" di Vincent Van Gogh
I pittori non hanno dipinto solo santi, eroi, cose belle e azioni nobili. Anche le più irrilevanti. Il primo è stato il greco Pirèico, citato da Plinio nella Storia Naturale. Dipingeva quadretti di “cose sordide”: cibi, utensili, animali. Questi compaiono anche nelle opere del Medioevo e del ‘400, ma una pernice morta deve aspettare Jacopo de’ Barbari nel 1504 per divenire soggetto di un quadro. E il genere della ‘natura morta’ fatica ad affrancarsi dal pregiudizio classicista che la relega al gradino inferiore dell’arte. Tra i maestri che riproducono con angosciante verosimiglianza tranci di carne, verdure appassite, selvaggina in carniere, molti sono olandesi. Come van Gogh che - pur essendo venerato soprattutto per i ritratti, i paesaggi, gli abbacinanti campi di grano, i cipressi e i girasoli - si è spesso dedicato alla natura morta. Ha raffigurato cipolle, patate, scope, ombrelli, pere, caraffe, pentole, boccali di birra, pipe, caffettiere. Oppure scarpe sformate, con le suole chiodate e i lacci esausti, e sedie di legno grezzo, con l’impagliatura in briciole. Stadio estremo della materia. Oggetti d’uso quotidiano, consunti, che urlano sulla tela la loro fatica di esistere. Ma niente mi commuove più di queste due legnose aringhe affumicate, comprate in una bottega di Arles da un uomo che disperatamente si aggrappava alla pittura per dimostrare al mondo e a se stesso di essere ancora un artista.
Questo cibo da poveri è un capolavoro
Van Gogh le dipinse nel gennaio del 1889, appena dimesso dall’ospedale Hotel-Dieu - dove era stato ricoverato dopo il famigerato litigio con Gauguin, e la mutilazione dell’orecchio. Non guarito e, anzi, ancora incalzato da terrori di morte e voci persecutorie: però lucido, desideroso di normalità. Voleva erigere un argine contro la malattia che lo incalzava. Al fratello Theo scrisse di aver iniziato qualche natura morta per “ritrovare l’abitudine di dipingere”. Scelse qualcosa di semplice: piccolo formato, pochi colori.
Benché si identificasse coi ronzini dagli occhi tristi che tirano la carrozza dei signori, van Gogh ha dipinto pochi animali. Qualche mucca, buoi, pecore, farfalle, un martin pescatore, il cavallo della raccolta rifiuti. Invece, pittoricamente stimolato dalle squame argentate del dorso, o proprio dal loro destino ‘cristiano’ di cibo dei poveri e consolazione degli affamati, aveva già dipinto aringhe rosse simili a queste (a Parigi, nel 1886-87: una l’aveva scambiata con un tappeto). Ma in modo più convenzionale. Se il soggetto è lo stesso, il ‘motivo’ è cambiato. Stavolta le guarda da vicino, strappandole a ogni spazio naturalistico. Le aringhe sono posate su un cartoccio, a sua volta posato su un piatto di ceramica, e questo su una sedia. Ma la parete, di un pallido viola (come nella Stanza dell’artista) è ridotta a un rettangolo rigato di pennellate verticali; la sedia di paglia giallognola e verdastra (la ‘sua’ sedia, già protagonista di un quadro) a una fitta tessitura di fili orizzontali. Le pennellate si susseguono “come le parole in un discorso o in una lettera”: van Gogh scrive dipingendo. Le aringhe sono due forme aguzze - le bocche asfittiche nel dolore dell’agonia, la pelle crostosa, le code secche, le scaglie rosse come braci. Il quadro è una sinfonia in giallo e viola, colori complementari. Benché van Gogh preferisse considerarsi un calzolaio e non un musicista di colori, sbalordisce la gamma di sfumature del giallo - oro vecchio, oliva matura, limone acido, burro fresco - che riesce a esibire in uno spazio così esiguo. Ma i vicini di casa lo temevano e in 30 firmarono una petizione al Sindaco. Il ‘pazzo’ alcolista rappresentava una minaccia per donne e bambini: chiedevano il suo internamento. La polizia lo riportò all’ospedale, in isolamento, e mise i sigilli alla Casa Gialla. Le Aringhe affumicate, insieme agli altri quadri iniziati dopo la crisi, rimasero sotto sequestro. Quegli inoffensivi pesci morti avevano contribuito a esasperare i gendarmi, perché ad Arles essi venivano soprannominati ‘aringhe’. Come se li avesse dipinti per schernirli. Nella storia dell’arte sono passate in leggenda le inimicizie tra i pittori. Le cattiverie, le rivalità che opposero Bramante e Michelangelo, Tiziano e Tintoretto, Caravaggio e Baglione, Lanfranco e Domenichino, Picasso e Matisse. Di rado invece vengono ricordate le amicizie, come se si potessero capire l’invidia e il complesso di Salieri più facilmente dell’ammirazione reciproca e della solidarietà che talvolta uniscono spiriti diversi in tutto, eppure capaci di comprendersi. Le Aringhe affumicate di Arles parlano anche di questo. Esse sono l’ultima apparizione di un genere di pittura perduto: il dono d’addio. In segno di amicizia, i Greci donavano all’ospite in partenza un quadro che raffigurava frutti o cibi. Lo chiamavano xenia. Il 23 marzo, su richiesta di Theo che lo sapeva in viaggio nel sud della Francia, il pittore Paul Signac andò a trovare van Gogh in ospedale. Può sembrare un gesto doveroso. Non lo era. Nessun altro (a parte il postino Roulin e un pastore protestante) si prese la pena di fargli visita. Signac lo aveva conosciuto a Parigi nel 1887: ad Asnières avevano dipinto insieme il paesaggio industriale suburbano. Van Gogh aveva assimilato la lezione neo-impressionista di Seurat - di cui Signac era sodale e amico. Ad Arles, Signac ottenne il permesso di far uscire van Gogh dall’ospedale, ma non di sfondare la porta della Casa Gialla (la serratura era stata rotta durante l’apposizione dei sigilli). Signac la aprì lo stesso. Van Gogh gli mostrò i quadri cui lavorava prima del ricovero: Caffè di notte, La Berceuse, Notte stellata… L’anarchico Signac era un artista consapevole e un critico acuto. Parlarono a lungo di pittura, fraternamente. La sua presenza risollevò il morale di van Gogh. Credeva che l’amicizia, liberandolo della sua spaventosa solitudine e ancorandolo alla vita, potesse salvarlo. L’indomani, al momento del congedo, come ringraziamento volle regalargli un quadro: questo. La corrente puntinista di Signac fu sconfitta dall’influenza della pittura di van Gogh, estranea allo studio degli effetti della luce. Ma Signac non serbò rancore, e non esitò a riconoscere il genio dell’altro. Definì ‘capolavori’ i quadri visti nella Casa Gialla. Ebbe sempre care le Aringhe affumicate, e non volle venderle mai. Esse restano una lezione di pittura, e un pegno d’amicizia: xenia.. Alcune opere di Van Gogh. in aggiornamento.
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L'Opera n. 32
Cosa c’è di più umile e feriale di un’aringa? Nuota in tutti gli oceani. Brutta e bistrattata, da viva non vale niente. Ma da morta è utile, quasi necessaria. La sua carne stopposa sa di sale o di fumo. La mangiano i poveri d’Europa, e infatti trovi aringhe sorelle di queste nelle taverne dei pittori del ‘600. Ignara, l’aringa ha fatto ricchi gli olandesi. Dicono che Amsterdam sia costruita sulle lische di aringa: i pescatori e i commercianti le devono le loro fortune. di MELANIA MAZZUCCO
L'Autore
Vincent Willem Van Gogh nasce il 30 marzo 1853 a Groot Zundert ed ebbe, a causa della sua estrema sensibilità di artista, una vita molto tormentata.
Figlio di un pastore protestante, mentre ancora vive a Zundert, Vincent esegue i suoi primi disegni. Inizia invece le scuole a Zevenbergen. Impara il Francese, l'Inglese, il Tedesco e per la prima volta inizia a dipingere. Terminati gli studi, va a lavorare come impiegato nella succursale della casa d'arte parigina Goupil e Cie, successivamente nelle sedi dell'Aja (dove compie frequenti visite ai musei locali), di Londra e di Parigi. Nel maggio del 1875 viene definitivamente trasferito a Parigi. Il trasferimento nella città francese, dove già risiede il fratello Theo, segna l'inizio del periodo appunto francese, interrotto solo da un breve viaggio ad Anversa alla fine dello stesso anno. Molto del suo tempo lo spende assieme al fratello e i due, da quel momento, iniziano una corrispondenza che durerà tutta la vita e che rappresenta ancora oggi il mezzo migliore per studiare le opinioni, i sentimenti e lo stato d'animo di Vincent. Durante il soggiorno parigino l'artista scopre la pittura impressionista e approfondisce l'interesse per l'arte e le stampe giapponesi. Conosce molti pittori tra cui Toulouse Lautrec e Paul Gauguin che apprezza particolarmente. La loro sarà una relazione assi turbolenta, con esiti anche drammatici, come testimonia il famoso episodio del taglio dell'orecchio (si suppone infatti che Vincent abbia assalito Gauguin con un rasoio. Fallito l'attacco, in preda ad una crisi di nervi, si taglia il lobo dell'orecchio sinistro). Intanto, il rendimento di Vincent alla Goupil & Cie si deteriora mentre, allo stesso tempo, la sua dedizione agli studi biblici raggiunge un livello ossessivo. Dopo essersi dimesso da Goupil al principio della primavera, si reca a Ramsgate, in Inghilterra, dove viene assunto in un piccolo collegio. Più avanti nel corso dell'anno Vincent assume un nuovo incarico quale insegnante e coadiutore presso il Reverendo T. Slade Jones, un pastore Metodista. Il 29 Ottobre Vincent pronuncia il suo primo sermone domenicale. Man mano che il fervore religioso di Vincent aumenta, il suo stato di salute fisico e mentale volge al peggio. Il 1880 è un punto di svolta nella vita di Vincent. Abbandona i suoi propositi religiosi e si dedica esclusivamente a dipingere poveri minatori e tessitori. Theo inizia ad appoggiarlo finanziariamente, una situazione che si protrarrà fino alla fine della vita di Vincent. Più tardi nel corso dell'anno, intraprende studi formali di anatomia e prospettiva all'Accademia di Bruxelles. Incontra Clasina Maria Hoornik (detta "Sien"), una prostituta gravata fra l'altro dal mantenimento di una figlia di cinque anni ed incinta di un altro figlio. Mentre continua i suoi studi e dipinge in compagnia di alcune nuove conoscenze, il suo stato di salute va nuovamente deteriorandosi, tanto da dover essere ricoverato in ospedale per gonorrea. Una volta dimesso, inzia alcune sperimentazioni pittoriche e, dopo più di un anno trascorso insieme, pone termine alla sua relazione con Sien. Più tardi nel corso dell'anno, Vincent si trasferisce a Nuenen dai suoi genitori, mette in piedi un piccolo studio per lavorare e continua a fare affidamento sul sostegno di Theo. Estende i suoi esperimenti fino ad includere una maggiore varietà di colori e sviluppa un grandissimo interesse per le incisioni su legno giapponesi. Tenta di intraprendere una qualche formazione artistica alla Ecole des Beaux-Arts, ma respinge molti dei principi che gli vengono insegnati. Desiderando continuare con qualche tipo di educazione artistica formale, sottopone qualcuno dei suoi lavori all'Accademia di Anversa, dove viene posto in una classe per principianti. Come ci si aspetterebbe, Vincent non si trova a suo agio all'Accademia ed abbandona. Intanto, sopravviene il 1888, un anno fondamentale nella vita di Van Gogh. Lascia Parigi in febbraio e si trasferisce ad Arles, nel Sud. All'inizio, il cattivo tempo invernale gli impedisce di lavorare, ma una volta arrivata la primavera inizia a dipingere i paesaggi in fiore della Provenza. Si trasferisce infine nella "Casa Gialla", una dimora che ha preso in affitto dove spera di stabilire una comunità di artisti. E' il momento in cui riesce a dipingere alcune delle sue opere migliori ma anche il momento delle sue già accennate violente tensioni con Gauguin. Durante la prima parte dell'anno, lo stato di salute mentale di Vincent oscilla paurosamente. A volte è completamente calmo e lucido; altre volte, soffre di allucinazioni e fissazioni. Continua sporadicamente a lavorare nella sua "Casa Gialla", ma la frequenza crescente degli attacchi lo induce, con l'aiuto di Theo, a farsi ricoverare presso l'ospedale psichiatrico di Saint Paul-de-Mausole a Saint-Rémy-de-Provence. Per ironia della sorte, mentre lo stato mentale di salute di Vincent continua a peggiorare nel corso dell'anno, la sua opera inizia infine a ricevere riconoscimenti presso la comunità artistica. I suoi dipinti "Notte stellata sul Rodano" e "Iris" sono in mostra al Salon des Indépendants in settembre, e in novembre viene invitato ad esibire sei dei suoi lavori da Octave Maus (1856-1919), segretario del gruppo di artisti Belgi "Les XX". Dopo una serie incredibile di alti e bassi, sia fisici che emotivi e mentali, e dopo aver prodotto con incredibile energia una serie sconvolgente di capolavori, muore nelle prime ore del 29 luglio 1890, sparandosi in un campo nei pressi di Auverse. Il funerale ha luogo il giorno dopo, e la sua bara è ricoperta di dozzine di girasoli, i fiori che amava così tanto. “Un abbraccio dal tuo Vincent”
Dall'archivio di "Repubblica", un articolo di Stefano Malatesta sull'epistolario tra Van Gogh e suo fratello Theo. Uno strumento preziosissimo per comprendere la sua personalità
Se per un paradosso nessuno dei suoi settecentocinquanta e più dipinti fosse sopravvissuto, le lettere a suo fratello Theo rimangono come una testimonianza umana tra le più strazianti e sconvolgenti e come un capolavoro di letteratura di confessione (...)
Il carteggio ebbe inizio nell' agosto del 1872, quando Vincent, impiegato in una delle maggiori ditte del mercato artistico internazionale, la Goupil, con sede all' Aja,aveva venti anni e il fratello quindici. Trasferitosi Vincent a Londra all'inizio dell' anno successivo, le lettere presero un ritmo molto più accelerato, amabili, affettuose, piene di consigli per letture, di segnalazioni alla rinfusa di artisti moderni da seguire e da ammirare, tra i quali c'è subito Millet che resterà sempre uno dei pittori più amati. Vincent aveva nostalgia per il suo paese, ma era affascinato dall'atmosfera di Londra, dalla sua natura, dai parchi, dal Tamigi, dalla campagna intorno. Inoltre si era innamorato della figlia della sua padrona di casa, Ursula Loyer, che aveva organizzato un giardino d'infanzia. Il periodo più felice della sua vita, prima di essere respinto da Ursula. Sembra che Van Gogh disegnasse già nell'infanzia, senza uno speciale talento, per semplice passatempo, come moltissimi ragazzi che non sono diventati Van Gogh. Ma nelle lettere da Londra, poi da Parigi e da tutti i luoghi che ha toccato, sono evidenti una capacità descrittiva e un occhio non comuni. Quando parla di case, non ne accenna genericamente, ma ne dà la linea, la struttura, il riflesso sulle strade bagnate, il rapporto tra loro. Racconta del campanile che sovrasta sotto il cielo grigiastro, dell'uomo che guarda l'acqua appoggiato al parapetto del ponte. Sono immagini colorate, le strade dorate al tramonto, le giornate grigie, i cespugli di lillà bianco e viola, fino alla famosa descrizione della casa gialla di Arles, presa in affitto molti anni dopo, nel 1888: "... Un interno senza niente, una semplicità alla Seurat; a tinte piatte, ma con pennellate grosse, a pasta piena, i muri lillà pallido, il pavimento di un colore rosso e sbiadito, le sedie e il letto giallo cromo, i cuscini e il lenzuolo verde limone pallido, la coperta rosso sangue, la toilette arancione, la brocca azzurra e la finestra verde..." Dalle lettere a Theo in questo periodo non traspare nulla del trauma subito dal rifiuto di Ursula, che era già fidanzata in segreto con un altro (sette anni più tardi paragonerà la vita a una barca sospinta dalle passioni: la mia è affondata a venti anni). Ma d'ora in poi l'epistolario si accende come di un'ossessione, di un bisogno ardente di rivelare se stesso, di spiegarsi e di spiegare le proprie crisi. Negli autoritratti di Van Gogh, che rimangono tra i tentativi più alti di autoanalisi che un pittore abbia mai sperimentato dagli anni di Rembrandt maturo, gli occhi sono quelli di una persona che si sta interrogando allo specchio, con uno sguardo concentrato, fisso, che esce fuori per rientrare dentro, uno sguardo intensamente introspettivo. Alla base dell' ossessione, che si potrebbe anche chiamare ricerca, stava un sentimento etico e religioso, che comprendeva ogni aspetto della vita e della natura. Van Gogh, figlio e nipote di pastori protestanti, era nato con la Bibbia in mano (così come aveva respirato in casa l'arte, con antenati scultori e orafi e gli zii mercanti d' arte). A Parigi, in uno dei suoi trasferimenti ancora come impiegato della Goupil, leggeva ogni sera i versetti a voce alta a un collega d'ufficio che viveva con lui. Le sue lettere sono intessute di cose viste e di consigli a Theo, di rinunce e di sacrifici: distruggere i libri (che lui stesso gli aveva segnalato), perché se hai trovato del miele, bada a non mangiarne troppo; le malattie non sono una disgrazia, perché il dolore è migliore del riso. La vicenda della signorina Loyer contribuì ad accentuare la vocazione di Vincent, a metterne a nudo gli aspetti più malinconici. Poi ci fu l'esperienza sociale, probabilmente ancora più importante per la formazione. Nell'aprile del 1876 aveva lasciato Goupil, abbandonando per sempre il mestiere di mercante d'arte. Ritornò in Inghilterra, andando ad insegnare lingue a Ramsgate e a Isleworth, nella periferia popolare di Londra, incaricato anche di raccogliere le rate mensili degli allievi. Il senso di fraternità per gli umili, nato nei sinistri quartieri dell'East End raccontati da Dickens e da George Eliot (che Van Gogh aveva letto), lo accompagnerà fino alla morte. Più tardi, dopo il tentativo fallito di diventare pastore come suo padre e di sottoporsi alle esercitazioni scolastiche necessarie, dirà che non ci sarebbe stato altro insegnamento, per lui, diverso da quello dell'università della miseria. Il successivo passaggio della vita di Van Gogh, il periodo del Borinage, la regione mineraria dove andò come missionario volontario, leggendo la Bibbia e visitando i malati anche la sua storia con la modella, Sien, una ragazza che aveva raccolto per strada, ubriaca e incinta sono perfettamente coerenti con la sua vocazione. La miseria e l'abbrutimento dei derelitti, per Vincent, dovevano essere vissuti in prima persona, non mediati attraverso una distante pietà. Lontanissimo dalle teorie sull' autonomia dell'arte, Van Gogh ha praticato la pittura come intimamente connessa con la vita: non essendo la bellezza un'armonia di forme, ma una verità da testimoniare. Questo cristianesimo intransigente non era fatto per piacere alla chiesa ufficiale. Vestito con una vecchia uniforme da soldato, sporco di polvere di carbone, Vincent doveva sembrare uno degli invasati di Dio dei romanzi di Dostoevskij: gli occhi allucinati, i discorsi troppo partecipati. La nomina nel Borinage non gli venne rinnovata, fu costretto ancora una volta a partire, sconvolto, anche in parziale urto con il fratello Theo, che gli suggeriva rimedi peggiori del male. Un periodo durato almeno nove mesi, di cui sappiamo molto poco. Van Gogh infatti, aveva smesso di scrivere. Nel luglio del 1880, ricevendo un vaglia di Theo trasferitosi a Parigi, Vincent riprese la corrispondenza con una lettera bellissima, insieme una confessione e un bilancio e l'annuncio di una svolta. "Invece di abbandonarmi alla disperazione - scriveva - ho optato per la malinconia attiva; che spera, che anela, che cerca... non sempre uno sa quello che potrebbe fare, ma lo sente d' istinto: eppure sono buono a qualcosa, sento in me una ragione di essere!... A cosa potrei essere utile, a cosa servire? C' è qualcosa in me, che dunque?". Si era accorto che Dio era ovunque, in ogni buona cosa, in ogni grande attività, non solo in quella religiosa, ma anche in quella artistica. Cerchiamo di capire la parola definitiva contenuta nei capolavori dei grandi artisti, dei veri maestri aggiungeva e si troverà Dio. Se non aveva potuto parlare agli uomini dal pulpito di una chiesa, lo avrebbe fatto dipingendo, con le figure, attraverso i dipinti. Aveva sentito la nostalgia per il paese dei quadri e aveva ripreso, finalmente, a disegnare. E ora terminava: "Pur avvertendo la mia debolezza e la mia penosa soggezione a molte cose, ho ritrovato la mia calma di spirito e l' energia mi ritorna ogni giorno di più". |