"La favola di Aracne" di Velazquez
A prima vista, sembra un quadro naturalistico, ambientato in una fabbrica di tappeti. Nel '700 gli fu infatti assegnato il titolo Las hilanderas (Le filatrici). Si pensò che l'illustre Velázquez, ormai gentiluomo di corte incaricato di decorare palazzi e organizzare i viaggi del re, avesse fatto un sopralluogo nella manifattura di Santa Isabel, dove si filavano gli arazzi per le residenze di Filippo IV - suo protettore, padrone e amico. E che avesse riprodotto l'ambiente con verità: del resto in gioventù, a Siviglia, prima di trasferirsi a Madrid e diventare pittore di corte, si era specializzato in quadri di genere ambientati nelle taverne e nelle cucine. Aveva rappresentato con realismo paragonabile a quello di Caravaggio acquaioli e friggitrici di uova, servette mu-latte, picari, cipolle, coltelli e umili pesci.
Così Velazquez mostra il mito del ragno
In primo piano infatti, in un locale saturo di pulviscolo di lana, immerso nella penombra dorata, cinque donne sono intente al lavoro manuale - fra gatti, fusi e fiocchi caduti. Sul muro è appesa una matassa. A sinistra, una vecchia; a destra, una giovane, di spalle, con la camicia bianca. Spinta dalla mano della vecchia (appena abbozzata), la ruota dell'arcolaio gira talmente veloce che i raggi diventano invisibili. La raffigurazione del moto è così virtuosistica che non riesco a capire come Velázquez abbia fatto a dipingerlo. Ma la filatrice al centro si china, il movimento fa vibrare la figura e la sfuoca, guidando il nostro sguardo più dentro l'immagine. La luce squarcia al centro la stanza, aprendo lo spazio.
In secondo piano, tre donne eleganti - estranee al mondo artigiano delle filatrici - si affacciano sul proscenio di un teatro, occupato da una viola da gamba. Una guarda verso di noi, invitandoci a guardare ciò che guardano le altre. L'occhio allora si inoltra ancor più nello spazio. In terzo piano vi è una figura con l'elmo, lo scudo e la lancia (gli attributi della dea Atena) che minaccia una donna. Sembrano agitarsi sul palcoscenico di un teatro. E non è finita. Una tela (o piuttosto un arazzo) pende dalla parete di fondo, chiudendo insieme la scena del teatro e il quadro. Vi è rappresentata una forma sfuggente: un toro, che trascina un corpo di donna. La scena tessuta sull'arazzo riproduce a sua volta un quadro (che apparteneva alla collezione di Filippo): Il ratto di Europa, di Tiziano. Dunque il toro è Zeus. Ma allora che cosa vediamo? L'arazzo è quello che sta tessendo la donna in primo piano: "l'abisso" svela il significato del quadro. Il pittore rappresenta la favola di Aracne. Raccontata nelle Metamorfosi di Ovidio, aveva una rara ma preziosa tradizione pittorica. La giovane Aracne, abilissima tessitrice, sfida la dea Atena, convinta di essere più brava di lei. Per dimo-strarlo, tesse Il ratto di Europa. Ma gli dèi non possono permettere ai mortali di essergli pari. Come Apollo punisce il flautista Marsia scorticandolo vivo, così Atena tramuta la bella tessitrice in un ragno. È un mito gerarchico e crudele: un monito all'orgoglio degli uomini. Ma la tessitrice rivendica con consapevolezza il valore del suo lavoro. Aracne è sempre anche un'immagine dell'artista. Velázquez raffigura con fedeltà il mito, ma lo decostruisce. Non si limita a spostare in abisso il soggetto del quadro (come aveva fatto a vent'anni, dislocando le scene bibliche in una finestra sullo sfondo e lasciando in primo piano scene di vita domestica). Lo frantuma, come schegge di uno specchio rotto. E non lavora a partire dalla realtà, ma dall'arte stessa. Nelle due filatrici in primo piano sono stati riconosciuti due Ignudi di Michelangelo sulla volta della Cappella Sistina. Velázquez li ha ammirati e copiati durante il viaggio in Italia, e prende in prestito la loro posizione e i gesti. Le due presunte filatrici madrilene sono in realtà Atena, travestita da vecchia per spiare la rivale al lavoro, e la giovane Aracne: sulla sua nuca e sulle sue spalle cade la luce. È lei la protagonista dell'azione. Di abisso in abisso, Velázquez illustra tutta la storia, immaginandola come una recita a teatro, per tre aristocratiche della corte del re (questo è un quadro di sole donne). Vita, teatro e arte si confondono - la finzione non è meno vera della realtà. È il trionfo dell'illusionismo. Il quadro, non datato, dipinto non per il re ma per il cortigiano Pedro de Arce, viene generalmente assegnato agli ultimi anni della vita del pittore (1658-60): come fosse il suo testamento - culmine e fine dell'arte barocca. La tecnica pittorica non è meno complessa della concezione dell'opera. Velázquez gioca con la luce, con l'ombra, col ritmo dei colori, i toni e lo spessore del pigmento, ora tenue ora denso. Sulla superficie limitata della tela, si serve di tutte le tecniche possibili, fra loro diverse e opposte - il che spiega il disorientamento che il quadro genera nello spettatore. Brani naturalistici e di natura morta modellati nei particolari si alternano con zone indefinite, nelle quali Velázquez suggerisce appena le forme con rapidi, impressionistici tocchi di pennello. È come se volesse mettere in scena la pittura stessa. E credo che proprio questo sia il vero soggetto del quadro. In un ritratto di Velázquez detto Donna di profilo, la fascinosa modella ha le stesse sembianze della filatrice-Aracne. Rappresenta l'Allegoria della Pittura. L’artista del male di vivere
Dall'archivio di "Repubblica", un articolo di Antonio Pinelli sulla vita e la pittura di Velazquez (...) La vita di Velazquez si svolse in un periodo cruciale della storia iberica. Quando egli nacque, nel 1599, Filippo II era morto da un anno e benché già cominciassero a manifestarsi le prime crepe nel suo immenso dominio, la Spagna era ancora di gran lunga la maggiore potenza del globo. Alla morte del pittore, nel 1660, lo scenario, però, era profondamente mutato: da un anno il Trattato dei Pirenei aveva sancito il sostanziale trasferimento alla Francia di quell'egemonia sull'Europa che la Spagna aveva esercitato per oltre un secolo, ma che si era sbriciolata in una sequenza di guerre e sollevazioni tanto lunga e travagliata, da meritare la definizione di siglo de hierro, secolo di ferro.
Tuttavia, per una di quelle contraddizioni di cui la storia è costellata, il siglo de hierro fu per le lettere e le arti un vero e proprio siglo de oro: l'epoca di Cervantes e di Gongora, di Gracian e Calderon de la Barca, di Quevedo e Lope de Vega; e per la pittura, l'epoca dell'incontrastato dominio di Diego Velazquez. Alla fine del Cinquecento, la città natale del pittore, Siviglia, era la più popolosa e ricca di Spagna: nel suo porto i galeoni scaricavano quintali di merci, oro e argento provenienti da oltreoceano, ma anche la vita culturale era vivacissima e aperta agli scambi. Da giovane Diego dipingeva soprattutto scene di taverna e nature morte, i cosiddetti Bodegones, con uno stile crudamente realistico e "tenebroso", alla caravaggesca. Ma sbaglierebbe chi, tratto in inganno dalla sbalorditiva maestria dell'artista nel contraffare le apparenze della realtà, sottovalutasse le implicazioni letterarie e sottilmente speculative della sua pittura. Perfino in queste scene triviali si annida un significato nobilitante, come nel Venditore d' acqua, che è in mostra, dove si cela un dotto riferimento alle "Età dell'uomo" e forse anche qualche altro significato più recondito. Era stato il suo primo maestro, Francisco Pacheco, poi divenuto suo suocero, ad introdurre il giovane Diego nei circoli filosofici e letterari di Siviglia, e Velazquez non avrebbe più dimenticato quella lezione (quando morì, nella sua biblioteca c'erano pochi libri di devozione, ma molti di letteratura e poesia). A guardar bene, il fascino e la grandezza della pittura del sivigliano stanno proprio nell'inestricabile intreccio di verità e artificio, realtà in presa diretta e sua elaborazione concettuale. O meglio, per usare un termine tratto dalla letteratura spagnola, nell'intreccio tra naturalismo e concettismo. Nelle sue opere, sotto il velo smagliante e illusorio di ciò che appare, si cela sempre l'insidia di un trabocchetto, la complicazione di un gioco mentale, di un enigma che sfida l'osservatore. Il caso più clamoroso è costituito proprio dalla sua tela più celebre, Las meninas, dove alla palpitante verosimiglianza di quella gran sala in penombra in cui i ritratti sono così vivi che pare di sentirli alitare e tutto sembra palpabile, perfino il baluginio del pulviscolo atmosferico, corrisponde il sottile disorientamento psicologico di un'oscura messinscena colma di sottintesi, complicata da ribaltamenti ottici, ambigui rispecchiamenti e presenze misteriose: un quadro-sciarada che continua a sfidare legioni di interpreti agguerriti (tra i quali Foucault), ma che forse custodisce ancora il suo segreto. Lo stesso dicasi delle Hilanderas, le Tessitrici, una tela che fino a qualche tempo fa era interpretata come la realistica descrizione di una vera giornata di lavoro nell'Arazzeria regia, e si è invece rivelata come un'insolita, spiazzante versione del mito di Aracne. Confinare la scena principale nello sfondo, quasi fosse un quadro nel quadro, ed esaltare in primo piano brani di vita quotidiana è un meccanismo narrativo che Velazquez aveva appreso giovanissimo dai quadri fiamminghi del Cinquecento, che rappresentano Cene ad Emmaus e Nozze di Cana, facendo intravedere i convitati da una finestra di cucina, per poter esibire sul proscenio succulenti trionfi di nature morte maneggiati da cuoche rubizze e sguatteri concupiscenti. Ma la tendenza ad umanizzare il mito e perfino a dissacrarlo con l'acido corrosivo dell'ironia è un elemento di poetica che avvicina Velazquez a Cervantes (...). Divenuto il pittore ufficiale della corte spagnola, Velazquez arricchì la sua cultura figurativa studiando le opere d' arte conservate nelle raccolte reali e compiendo due lunghi soggiorni in Italia, dal 1629 al 1631 e dal 1649 al 1651, per acquisirne altre, sia antiche che moderne, su incarico del re. A Napoli, capitale del Vicereame spagnolo, poté vedere altre opere di Caravaggio e fare la conoscenza con un conterraneo di genio, il Ribera, di cui la mostra esibisce opportunamente alcune tele a confronto. Ma il confronto ravvicinato di gran lunga più emozionante proposto a Capodimonte è quello che scatta tra la Danae di Tiziano, che certamente lo spagnolo volle ammirare durante il suo soggiorno a Napoli, e la Venere allo specchio della National Gallery di Londra, forse la tela più celebre di Velazquez dopo Las meninas. Due nudi sontuosi, con cui due maestri hanno celebrato la bellezza femminile accarezzandone golosamente le forme a colpi di pennello in un incendio di colori: più opulento e denso di pasta cromatica quello tizianesco, che sa restituire il tremito e il segreto calore del sangue che pulsa sottopelle; più scattante, perlaceo e sottilmente conturbante quello dipinto dallo spagnolo, in cui un elusivo ma intrigante gioco di specchi risolve l'antica disputa sulla presunta superiorità della scultura nei confronti della pittura, mostrandoci contemporaneamente, come avrebbe detto l'Aretino, "il dinanti e il didietro" dell'abbagliante modella. Un fondoschiena sublime, su cui invano si accanì nel 1914 la lama di una suffragetta, producendo uno sfregio cui i miracoli del moderno restauro hanno saputo porre riparo. Come Tiziano, alla cui pittura non cessò mai di ispirarsi, Velazquez ci ha lasciato una galleria di ritratti indimenticabili, di cui questa mostra ci offre un superbo campionario: principesse e buffoni di corte, monarchi e letterati, dignitari e dame di compagnia, ciascuno è reso con palpitante evidenza nella sua inconfondibile individualità, ma su tutti il pennello del pittore sembra aver depositato un impercettibile velo di tristezza. La malinconia, ha scritto Miquel Angel Asturias, crea un vuoto invalicabile tra i personaggi effigiati da Velazquez e colui che guarda. Su tutti, spicca (...) il Ritratto di Luis de Gongora: l'ampia fronte su cui batte violenta la luce, le labbra sigillate in una piega amara, lo sguardo penetrante che ci fissa implacabilmente e un'invincibile cupezza, che dichiara senza mezzi termini il male di vivere. |
L'Opera
Quando Amleto fa rappresentare alla corte di Danimarca l'Assassinio del Gonzago dalla compagnia di attori girovaghi, Shakespeare replica al livello dei personaggi l'antefatto della tragedia - illuminandone il significato. È la tecnica narrativa che i teorici della letteratura chiamano "mise en abîme" (messa in abisso). Dilagò nel teatro barocco - ricco di commedie doppie e perfino triple, intrichi di storie a specchio che inabissavano personaggi e spettatori nel labirinto dell'illusione. Non era esclusiva della parola: anzi l'immagine si prestava ad aperture e rifrazioni anche più vertiginose. In arte, l'avevano usata virtuosisticamente i fiamminghi. Ma nessun pittore l'ha reinventata con la finezza e la profondità di Velázquez, nei suoi tardi capolavori: Las meninas, uno dei quadri più celebri di tutti i tempi, giustamente definito da Luca Giordano "la teologia della pittura" e questo: meno noto, ma altrettanto enigmatico e affascinante.
Di Melania Mazzocca L'Artista
Velázquez, Diego Rodríguez de Silva y (Siviglia 1599 – Madrid 1660), pittore spagnolo, massimo esponente dello stile barocco.
Tra il 1611 e il 1617 lavorò come apprendista presso Francisco Pacheco, pittore manierista di Siviglia e autore di un importante trattato di pittura (El arte de la pintura, 1649). Velázquez assimilò gli stili pittorici più diffusi dell’epoca, in gran parte influenzati dal realismo italiano e fiammingo Le prime opere, eseguite tra il 1617 e il 1623, possono essere raggruppate in tre categorie: i bodegones (dipinti di genere con nature morte), i ritratti e le scene religiose. Molti di questi lavori mostrano una marcata impronta naturalista, come Due giovani a tavola (1617 ca., Wellington Museum, Londra), tra le prime opere realizzate come artista indipendente, eseguita dopo aver superato l’esame per l’ammissione alla corporazione di San Luca. Nei bodegones, come l’Acquaiolo di Siviglia (1618-19 ca., Wellington Museum, Londra), i magistrali effetti di luce e ombra, così come l’osservazione diretta della natura, presentano strette analogie con la maniera di Caravaggio. Per i dipinti religiosi, caratterizzati da un tono di sincera devozione, Velázquez utilizzò come modelli uomini e donne comuni, conosciuti per le vie di Siviglia; nell’Adorazione dei Magi (1619, Prado, Madrid), in cui compare anche un autoritratto, i modelli per le figure bibliche furono i suoi stessi familiari. Bene introdotto nella ristretta cerchia intellettuale di Siviglia, Velázquez entrò in contatto con letterati e poeti famosi, come Luis de Góngora y Argote, del quale realizzò un ritratto (Museum of Fine Arts, Boston) nel 1622. Tali conoscenze stimolarono nel pittore l’interesse per la cultura classica, che costituirà in seguito la base per numerose composizioni di soggetto mitologico, ricche di significati e simbologie nascoste. Dopo un primo viaggio a Madrid nel 1622, Velázquez tornò nella capitale l’anno seguente, nominato pittore ufficiale di Filippo IV. Nel 1623 eseguì il primo di una lunga serie di ritratti del sovrano (Meadows Museum of Art, Dallas), inaugurando un periodo di intensa attività come ritrattista, prediletto dai membri della famiglia reale e della corte. Non mancò tuttavia di dedicarsi talvolta anche a soggetti mitologici, seppure con un taglio decisamente anticlassico: nel Trionfo di Bacco (o I bevitori, 1628-29, Prado) il dio del vino (Bacco) è rappresentato in un banchetto all’aperto insieme a personaggi che assomigliano più a furfanti d’osteria che a figure dell’Olimpo, a riprova dell’interesse del pittore per il realismo. Nell’agosto del 1629 Velázquez, invogliato probabilmente anche dalle conversazioni sull’arte italiana intrattenute con Rubens a Madrid, partì da Barcellona per Genova; trascorse quindi due anni in viaggio per l’Italia, visitando Milano, Venezia, Parma, Roma e Napoli, dove poté studiare da vicino e assimilare l’arte del Rinascimento e del barocco italiano. Tra le molte opere eseguite in questo periodo si ricorda la Fucina di Vulcano (1630, Prado), in cui la resa delle figure umane, ispirata allo stile plastico di Michelangelo, si combina con la tecnica del chiaroscuro affinata sull’esempio di Guercino e di Giovanni Lanfranco. Rientrato a Madrid, Velázquez tornò alle mansioni di ritrattista di corte, eseguendo tra l’altro l’intenso Principe Baltasar Carlos con una nana (1631, Museum of Fine Arts, Boston), che la precoce morte del giovane principe nel 1646 rese ancora più pregnante. Nel 1634 diresse i lavori per la decorazione della sala del trono nel nuovo Palazzo reale del Buen Retiro, per il quale progettò dodici scene di battaglia, realizzate in collaborazione con gli artisti più celebri dell’epoca, e dipinse una serie di ritratti reali equestri. Le opere autografe di Velázquez nel ciclo dei quadri delle battaglie comprendono la Resa di Breda (1634, Prado), in cui viene rappresentato l’incontro tra un generale spagnolo e il comandante delle truppe fiamminghe sconfitte dopo l’assedio della città nel 1624. L’originale composizione en plein air, la delicatezza e la precisione della pennellata insieme alla drammaticità rattenuta della situazione descritta fanno di questo dipinto la più celebrata opera storica dell’arte barocca spagnola. Del periodo compreso tra il 1638 e il 1664 è l’importante serie di ritratti di caccia della famiglia reale, commissionata per la Torre de la Parada, padiglione di caccia presso Madrid. Negli stessi anni Velázquez si occupò tuttavia anche di altri soggetti, più originali: intorno al 1643-44 datano le famose raffigurazioni di buffoni e nani di corte i quali, diversamente degli usi correnti, vengono ritratti con rispetto e simpatia. Come pittore di corte Velázquez eseguì pochi lavori a soggetto religioso; le eccezioni più interessanti sono costituite dalle Storie dei santi Antonio abate e Paolo eremita (1634 ca., Prado) e dalle due versioni di Cristo in Croce (1631 ca., Prado). Negli ultimi vent’anni Velázquez dedicò molto tempo agli impegni diplomatici e al lavoro di funzionario di corte. Ricevette alcuni incarichi come architetto ed ebbe la commissione di decorare le nuove stanze nei palazzi reali. Tra il 1649 e il 1650 fu nuovamente a Roma, dove dipinse due ritratti divenuti poi celeberrimi: Juan de Pareja (Metropolitan Museum of Art, New York) e Papa Innocenzo X (Palazzo Doria-Pamphilj, Roma). Tornato a Madrid nel 1651, realizzò gli ultimi capolavori, che risentono dell’evoluzione stilistica maturata nel corso degli anni, sotto l’influsso anche della pittura italiana: Las hilanderas (Le filatrici o La favola di Aracne, 1653 o 1657, Museo del Prado), dipinto metà realistico e metà mitologico, e Las meninas (Le damigelle di corte, 1656, Museo del Prado), ritratto di gruppo della famiglia reale con autoritratto dell’autore nell’atto di dipingere. L’opera di Velázquez ebbe un ruolo di primo piano nello sviluppo dell’arte spagnola dopo la morte dell’artista, esercitando particolare influenza, circa un secolo più tardi, sulla pittura di Francisco Goya. |