“L’isola dei
morti” di Böcklin
Bocklin ne ha realizzate ben cinque versioni tra il 1880 e il 1886. Le differenze tra le stesse sono poche e riguardano soprattutto la gamma cromatica.
Böcklin, un visionario moderno. Artista di spicco di fine Ottocento, lo svizzero Arnold Böcklin (1827-1901) è stato riscoperto dai pittori surrealisti per la creatività, l'inventiva iconografica e la tendenza a mescolare generi diversi.
E' l'ipnotico dipinto che Hitler volle comprare a tutti i costi.
Dove vanno i morti? In Paradiso? In cielo, tra le stelle?
Sottoterra? Scendono nel triste Ade con una moneta sotto la lingua per pagare
il traghetto di Caronte? Li aspetta la prateria degli asfodeli, oppure, come
malvagi, il Tartaro — dove, come scriveva Omero, stridono di terrore come
uccelli fuggenti? O, come giusti, i campi elisi? O ancora, l’isola
boscosa dei beati — riservata a coloro che vissero virtuosamente? Oppure il
grande nulla, dove alla fine di ogni dolore l’individuo si dissolve nel tutto?
Qualunque cosa crediate, questo quadro offre una risposta seducente — e
chiunque lo abbia guardato ha pensato che non sarebbe male se andasse a finire
così.
E uno di quei rari quadri che mettono tutti d’accordo — forse perché tutti temiamo la fine. E dunque consolante, cosa che in genere nuoce all’arte, e spesso la abolisce. Non è questo il caso. Fin dalla primavera del 1880, quando Bòcklinlo realizzò, inun mese —per una donna che aveva appena perso il marito e che gli aveva richiesto un quadro “per sognare” —L’isola dei morti esercitò mia fascinazione ipnotica. Non era nemmeno finito e già gliene avevano chiesta una replica, e poi un’altra, e un’altra ancora — al punto che oggi se ne contano quattro varianti (una quinta è andata distrutta durante la seconda guerra mondiale). Tutte apprezzabili, ma la prima di una suggestione inimitabile. L’ammirazione divenne unanime, quasi assordante. Bòcklin, che dipingeva da più di trent’anni, con alterna fortuna, misteriosi paesaggi popolati da draghi, tritoni e ninfe, dovette restare e sorpreso. Come sempre accade, le ragioni del successo non avevano nulla a che vedere con l’opera. I nazionalisti tedeschi vi videro il simbolo dell’arte germanica. Ciò generò un fanatismo isterico, e procurò al pittore estimatori imbarazzanti, fra cui Adolf Hitler ma Bòcklin non lo seppe mai, perché dal 1901 riposava nel cimitero protestante di Fiesole dove, dopo una vita nomade fra la Svizzera, l’Italia e la Germania, aveva scelto di fermarsi per sempre). Il quadro al Fuihrer piaceva talmente tanto che era riuscito ad acquistarlo. C’è una celebre foto scattata nella Cancelleria del Reich il 12 novembre del 1940. Si vedono Hitler e Molotov. La guerra già devasta, milioni di europei sono morti o stanno per morire. E cosa si vede, alle loro spalle l’isola dei morti. Ma un quadro non può scegliere i suoi amici. E’ il crepuscolo: la notte cede al giorno o il giorno alla notte, perché nell’oscurità già si distingue la linea dell’orizzonte. Una barca a remi scivola sull’acqua nera, calma, immobile. Il remo è immerso, ma non solleva onde né spruzzi— al punto da rendere visibile il silenzio. La barca trasporta una bara, coperta da un drappo bianco. Ritta a prua c’è una figura inquietante, fasciata di veli bianchi, come una statua, o una mummia. Ma potrebbe anche essere l’anima del morto. La barca sta per approdare a un’isola: piccola, domina però il quadro. Falesie scoscese si ergono sul mare come montagne. In mezzo, cresce un bosco di cipressi. Un cimitero è infatti l’isola: nelle rocce, sono state scavate delle tombe — ora vuote. Un muro riverbera una luce chiara. Il buio sta per inghiottire il fantasma in bianco, richiudendosi su di lui.Tutto accade fuori dal tempo, in nessuna epoca, e dunque sempre. L’isola, le figure minuscole, l’oscurità, il mare fermo, la quiete impenetrabile: tutto comunica il senso della solitudine. La pittura di Bòcklin non ha sorelle. Non somiglia a quanto vanno sperimentando i suoi contemporanei, pur essendo L’isola dei morti dipinta negli stessi anni in cui Monet disfa il colore in materia, Degas scopre le ballerine, van Gogh percorre il Borinage per stare vicino ai minatori e Moreau spinge il simbolismo oltre il delirio. E un quadro fantastico dipinto con precisione accademica, una visione costruita con forme naturalistiche. L’atmosfera misteriosa piacque a De Chirico, Ernst e Dall. E dunque un quadro che condensa— e non separa: sogno, realtà, ricordo, nostalgia. L’immagine, apparentemente tradizionale, combina in modo nuovo paesaggi, stili e culture diverse. Il mito classico, il romanticismo nordico e la natura mediterranea. La barca di Caronte e le tombe etrusche, i cipressi di Fiesole e le rupi svizzere. E insomma la sintesi perfetta della ricerca di Bòcklin, svizzero di nascita, tedesco di cultura, italiano per amore, che scese a Roma per il Grand Tour nel 1850 e da allora non poté più rinunciare alla libertà e alla luce delle contrade selvagge «del mondo non civilizzato del sud». Infine, è anche un funerale. Quello, solenne e austero, che Bòcklin sognava per sé. Non stava affatto morendo, anzi: nel 1880 sapeva fronteggiare dolori e malinconia, era un bellissimo uomo dagli occhi blu, traboccante di idee e di amore per la sua giovane moglie romana e i suoi figli (ne aveva messi al mondo 14, molti però morti bambini). Come tutti i pittori del XIX secolo, aveva vissuto fra l’emarginazione della miseria e la coscienza orgogliosa della propria diversità d’artista. Trovato un pubblico, il benessere, la fama, ormai sapeva di essere anche lui un eletto — uno dei favoriti degli dèi che i greci destinavano all’isola dei beati. Però sapeva anche che i miti sono favole, il mondo antico è morto, e l’isola dei beati non si trova. Un pittore può renderla reale solo dipingendola - imprigionando l’infinito su un riquadro di tela. A volte le spiegazioni degli artisti sulle loro opere sono pletoriche, o fuorvianti. Non quella di Bòcklin: un quadro deve raccontare qualcosa, diceva, far pensare come una poesia e lasciare un’impressione come un brano di musica. Non saprei aggiungere altro. © Riproduzione riservata a la Repubblica. |
L'opera n. 7
"Dove
vanno i morti? In Paradiso? In cielo, tra le stelle? Sottoterra? Scendono nel
triste Ade con una moneta sotto la lingua per pagare il traghetto di Caronte?
Li aspetta la prateria degli asfodeli, oppure, come malvagi, il Tartaro - dove,
come scriveva Omero, stridono di terrore come uccelli fuggenti? O, come giusti,
i campi elisi? O ancora, l’isola boscosa dei beati - riservata a coloro che
vissero virtuosamente? Oppure il grande nulla, dove alla fine di ogni dolore
l’individuo si dissolve nel tutto? Qualunque cosa crediate, questo quadro offre
una risposta seducente - e chiunque lo abbia guardato ha pensato che non
sarebbe male se andasse a finire così". (Melania Mazzucco)
L'artista
Artista di
spicco di fine Ottocento, lo svizzero Arnold Böcklin (1827-1901) è stato
riscoperto negli anni a cavallo tra il 1910 e il 1920 da alcuni pittori
surrealisti - primi fra tutti Giorgio de Chirico e Marx Ernst, molto ispirati
dalla sua visione fantastica e iconoclasta della mitologia. In occasione del
centenario della sua morte una grande retrospettiva, al museo d'Orsay di
Parigi, ha permesso al pubblico francese, ma anche italiano, di conoscere
meglio la sua pittura. Non solo "germanica", come a lungo è stata
considerata per via delle tradizioni artistiche, letterarie ed estetiche a cui
si ispirava. Sebbene i suoi primi paesaggi impregnati di romanticismo si
rifanno alle lezioni di Johann Wilhem Schirmer e di Carl Friedrich Lessing, la
sua pittura riflette un'interpretazione nordica della latinità condivisa con i Deutsch-Römer,
artisti tedeschi stabilitisi a Roma verso la metà del secolo; l'artista,
inoltre, avendo a lungo viaggiato, ha subito molto l'influsso di altre correnti
della storia della pittura europea: Rubens ad esempio, ma anche Poussin e Le
Lorrain.
Böcklin ha trascorso una parte consistente della sua vita in Italia, subendo il forte influsso dell'arte pompeiana e del Rinascimento italiano, del quale come ricordava la mosta parigina, serba il ricordo nella fastosità dei ritratti e delle allegorie dipinti negli anni settanta del XIX secolo a Monaco – Autoritratto, 1873 (Amburgo, Kunsthalle), La musa di Anacreonte, 1873 (Aarau, Aargauer Kunsthaus). "L'artista vedeva nell'antichità mediterranea un'età d'oro per l'umanità che viveva in armonia con la natura. Le sue creature mitologiche - Pan nel canneto, 1859 (Monaco, Neue Pinakothek), Sera di primavera, 1879 (Budapest, Szepmüveszeti Museum) – esprimono la nostalgia dell'artista e il suo profondo scetticismo nei confronti della civiltà moderna non senza affinità con il simbolismo internazionale degli anni novanta del XIX secolo. Lo stile di Böcklin, tuttavia, completamente originale, non può essere paragonato a quello di nessuno dei maggiori simbolisti". Con la riscoperta di Böcklin, i surrealisti hanno messo in evidenza la sua creatività, inventiva iconografica e la tendenza a esplorare la mitologia senza paura di mescolare generi e registri diversi. Decisamente moderno per l'epoca in cui è vissuto. Basti pensare alle creature ibride che popolano i suoi quadri e che sono frutto anche di un soggiorno a Napoli. Nella città italiana si era infatti appassionato agli studi del centro di ricerche sugli animali marini, trovando linfa per la sua fantasia e creando nuovi ibridi per le sue scene di mare. Altro tema più volte affrontato nel corso della sua carriera è il destino dell'artista e la creazione, di cui aveva un'altissima concezione, come appare dai suoi autoritratti e dal confronto costante con alcune questioni fondamentali della pittura, dell'illusione, della forma e del colore. Scriveva Félix Vallotton sulla Revue Blanche che Böcklin era "di volta in volta ossessionato da tutti i sogni, da tutte le ambizioni: ambizioni di forma, di colore e d'espressione". Questa ricerca perpetua si riflette nella sua vita, non certo stanziale. Dopo aver vissuto a Basilea, Weimar e Monaco, l'artista si trasferisce a Firenze dove crea la prima versione di L'Isola dei Morti, il capolavoro per cui tutti, ancora oggi lo conoscono. |