"Pictor classicus sum"
"Da lungo tempo ormai mi son reso perfettamente conto che io penso per mezzo di immagini o raffigurazioni. Dopo lungo riflettere ho constatato che, in fondo, è l’immagine la principale espressione del pensiero umano, e gli altri fattori, per mezzo dei quali si esprime il pensiero, come, ad esempio, le parole, i gesti e le espressioni, non sono che espressioni secondarie che accompagnano l’immagine, fattore principale del nostro pensiero."
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"Et quid amabo nisi quod aenigma est?"
Pictor Optimus
Ha solcato il nostro secolo Giorgio de Chirico, come l’ultimo individualista. È riuscito a dimostrare che l’artista può (deve) seguire tranquillamente il filo d’Arianna della propria mente, incomprensibile per gli altri. Può dipingere l’acropoli di Atene e i cavalli in riva al mare tessalo, gli archeologi e le piazze meridiane, i manichini come le statue greche, gli interni strapieni di oggetti come l’infinito, la squadra e la pera, l’uomo e la sua ombra, il viandante e il suo fantasma. Può esplorare il Rinascimento come il Barocco, può studiare i fiamminghi e Michelangiolo, come può tornare alla propria antica pittura. E tutti, per decenni, hanno continuato a stupirsi (per stigmatizzarla subito dopo) di questa inquietante ubiquità. Infatti, appena lo classificano, il Metafisico si trova già su altre posizioni. E tutto rifiuta, a patto di salvare lo spirito di contraddizione, il Maestro degli Enigmi.
“Bisogna scoprire il demone in ogni cosa” era il suo primo comandamento. E allora il problema è quello di mescolare l’educazione greca alla cultura centroeuropea assorbita a Monaco, l’intellettualismo francese (di quando incantava Apollinaire e poi Cocteau) al mistero eterno di Zarathustra. La scoperta è semplice: l’enigma e l’inquietante sono all’angolo della strada, e basta solo saperli vedere. Ognuno vive giorno e notte con la propria follia, o con la propria saggezza, come aveva scoperto Nietzsche. E non a caso, i suoi padri de Chirico va a cercarli tra i filosofi del negativo (Schopenhauer, Weininger) e tra i pittori romantici tedeschi (Böcklin, Klinger), perché è tutta mentale e visionaria la sua operazione. E così le “piazze d’Italia” sono interrogativi sulla vertigine; aperture e chiusure nel conscio e nell’inconscio; l’invenzione d’un Rinascimento mai esistito. Assomigliando al Partenone, ogni stazioncina diventa tempio della dea Partenza. I suoi manichini sono l’aspetto moderno della statua, che all’artista interessa sempre come calco (e quindi: doppio, rispecchiamento, ombra). I suoi cavalli e mobili nella valle, i suoi trofei e gladiatori, rappresentano allora il recupero della Memoria: cosa ben diversa dal sogno e dall’incubo esaltato dai Surrealisti.
Con tutto questo bagaglio di miti, de Chirico non è allora un figlio di Freud (che, pure, è tra i primi a citare in Italia) ma un altro autentico padre della scienza dell’anima. Il mistero del tempo, la radiografia dell’inconscio, la presentazione enigmatica dell’enigma: sono tanti momenti che hanno portato fuori strada i suoi superficiali analizzatori. I fatti che de Chirico viene esponendo, nelle pagine e sulla tela, sono in realtà molto pochi, e tutti si riportano alla sua (mitica) personalità. Il vedente si trasforma in veggente, per far scoccare quella misteriosa scintilla che definiamo arte.
Non si vuole ammettere che tutta la sua operazione (certo, anche quella di reinventare le invenzioni di vent’anni prima) è quella nicciana dell’ ”eterno ritorno”. Si può anche scoprire che il vero mito di de Chirico si sdoppia: la partenza degli Argonauti da una parte, il Ritorno del figliol prodigo dall’altra. La partenza è un distacco traumatico, con riferimenti autobiografici (da Volos, e cioè dalla sua città natale, partirono gli Argonauti alla ricerca del Vello d’oro) ma anche con un destino di viaggi e delusioni, avventure e depressioni, fino a una probabile conquista (come l’oro per l’alchimista). Il Figliol prodigo è un tema che assume diverse sfumature nelle molte opere dedicate al tema: è il ritorno al padre, è l’abbraccio tra il figlio-manichino e un padre-statua, è l’approdo al Museo. Un nuovo arrivo e subito dopo una nuova partenza: resta quello di Odisseo il mito centrale per de Chirico, l’uomo che ricerca se stesso attraverso la peregrinazione, e la perdita di tutto, tranne che della Memoria.
Un modo per entrare nel suo cosmo (tortuoso per via degli enigmi accortamente moltiplicati) può anche essere quello di vedere in serie cronologica i suoi autoritratti, culminanti con questo scritto nelle Memorie. Autoritratto come specchio di Narciso, come insistenza sul “superuomo”, come travestimento sublime. Uno dei comandamenti di Nietzsche era: “volere tutto ciò che è già accaduto”. E che cos’altro fa de Chirico, quando si maschera da malinconico o da Böcklin, da hidalgo o da Euripide, quando si” statuifica” o quando si ritrae con la sua ombra (anima, kha), quando diventa sotto i nostri occhi oracolo o ecce homo, Odisseo o Apelle?
Nei suoi cento autoritratti, parla sempre con associazioni da svelare. Non è mai se stesso solitario ma con qualcuno (con Hermes, con la madre, con il fratello sapiente, con la Musa, con Euripide...). Non è mai in posa generica ma è sempre atteggiato come qualcuno (come “nato sotto Saturno”, come Raffaello, come gentiluomo rinascimentale o come figura barocca, come statua per l’eternità...). Proprio nell’autoritratto si esalta il valore della Metafisica. Non esiste niente di più fisico di un ritratto, eppure viene portato ogni volta al di là, tramite il perenne metodo della “visione”. Ancora uno dei suoi testi sacri (Weininger, il filosofo che si suicidò per scommessa) può chiarire questa intenzione: “Il numero di volti differenti che si succedono in un uomo durante la sua vita può essere considerato un vero criterio fisionomico dell’eminenza e dell’eccezionalità dei doni che ha ricevuto”. E insomma, se c’è da tirare una morale (sia pure “immoralista”) per la sua lunga operazione nell’immaginario, si può dire che, identificandosi con tutti, Giorgio de Chirico ha finito per identificarsi soltanto con se stesso. Enigmaticamente. Maurizio Fagiolo dell'Arco
“Bisogna scoprire il demone in ogni cosa” era il suo primo comandamento. E allora il problema è quello di mescolare l’educazione greca alla cultura centroeuropea assorbita a Monaco, l’intellettualismo francese (di quando incantava Apollinaire e poi Cocteau) al mistero eterno di Zarathustra. La scoperta è semplice: l’enigma e l’inquietante sono all’angolo della strada, e basta solo saperli vedere. Ognuno vive giorno e notte con la propria follia, o con la propria saggezza, come aveva scoperto Nietzsche. E non a caso, i suoi padri de Chirico va a cercarli tra i filosofi del negativo (Schopenhauer, Weininger) e tra i pittori romantici tedeschi (Böcklin, Klinger), perché è tutta mentale e visionaria la sua operazione. E così le “piazze d’Italia” sono interrogativi sulla vertigine; aperture e chiusure nel conscio e nell’inconscio; l’invenzione d’un Rinascimento mai esistito. Assomigliando al Partenone, ogni stazioncina diventa tempio della dea Partenza. I suoi manichini sono l’aspetto moderno della statua, che all’artista interessa sempre come calco (e quindi: doppio, rispecchiamento, ombra). I suoi cavalli e mobili nella valle, i suoi trofei e gladiatori, rappresentano allora il recupero della Memoria: cosa ben diversa dal sogno e dall’incubo esaltato dai Surrealisti.
Con tutto questo bagaglio di miti, de Chirico non è allora un figlio di Freud (che, pure, è tra i primi a citare in Italia) ma un altro autentico padre della scienza dell’anima. Il mistero del tempo, la radiografia dell’inconscio, la presentazione enigmatica dell’enigma: sono tanti momenti che hanno portato fuori strada i suoi superficiali analizzatori. I fatti che de Chirico viene esponendo, nelle pagine e sulla tela, sono in realtà molto pochi, e tutti si riportano alla sua (mitica) personalità. Il vedente si trasforma in veggente, per far scoccare quella misteriosa scintilla che definiamo arte.
Non si vuole ammettere che tutta la sua operazione (certo, anche quella di reinventare le invenzioni di vent’anni prima) è quella nicciana dell’ ”eterno ritorno”. Si può anche scoprire che il vero mito di de Chirico si sdoppia: la partenza degli Argonauti da una parte, il Ritorno del figliol prodigo dall’altra. La partenza è un distacco traumatico, con riferimenti autobiografici (da Volos, e cioè dalla sua città natale, partirono gli Argonauti alla ricerca del Vello d’oro) ma anche con un destino di viaggi e delusioni, avventure e depressioni, fino a una probabile conquista (come l’oro per l’alchimista). Il Figliol prodigo è un tema che assume diverse sfumature nelle molte opere dedicate al tema: è il ritorno al padre, è l’abbraccio tra il figlio-manichino e un padre-statua, è l’approdo al Museo. Un nuovo arrivo e subito dopo una nuova partenza: resta quello di Odisseo il mito centrale per de Chirico, l’uomo che ricerca se stesso attraverso la peregrinazione, e la perdita di tutto, tranne che della Memoria.
Un modo per entrare nel suo cosmo (tortuoso per via degli enigmi accortamente moltiplicati) può anche essere quello di vedere in serie cronologica i suoi autoritratti, culminanti con questo scritto nelle Memorie. Autoritratto come specchio di Narciso, come insistenza sul “superuomo”, come travestimento sublime. Uno dei comandamenti di Nietzsche era: “volere tutto ciò che è già accaduto”. E che cos’altro fa de Chirico, quando si maschera da malinconico o da Böcklin, da hidalgo o da Euripide, quando si” statuifica” o quando si ritrae con la sua ombra (anima, kha), quando diventa sotto i nostri occhi oracolo o ecce homo, Odisseo o Apelle?
Nei suoi cento autoritratti, parla sempre con associazioni da svelare. Non è mai se stesso solitario ma con qualcuno (con Hermes, con la madre, con il fratello sapiente, con la Musa, con Euripide...). Non è mai in posa generica ma è sempre atteggiato come qualcuno (come “nato sotto Saturno”, come Raffaello, come gentiluomo rinascimentale o come figura barocca, come statua per l’eternità...). Proprio nell’autoritratto si esalta il valore della Metafisica. Non esiste niente di più fisico di un ritratto, eppure viene portato ogni volta al di là, tramite il perenne metodo della “visione”. Ancora uno dei suoi testi sacri (Weininger, il filosofo che si suicidò per scommessa) può chiarire questa intenzione: “Il numero di volti differenti che si succedono in un uomo durante la sua vita può essere considerato un vero criterio fisionomico dell’eminenza e dell’eccezionalità dei doni che ha ricevuto”. E insomma, se c’è da tirare una morale (sia pure “immoralista”) per la sua lunga operazione nell’immaginario, si può dire che, identificandosi con tutti, Giorgio de Chirico ha finito per identificarsi soltanto con se stesso. Enigmaticamente. Maurizio Fagiolo dell'Arco
IL PERCORSO ARTISTICO. Lettura cronologica delle opere principali.
LOTTA DI CENTAURI (1909, Milano Olio su tela, cm 75 x 110. Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, Roma)
Il primo de Chirico subisce la forte suggestione del romantico Bocklin. È affascinato dal modo in cui questi tratta i soggetti mitologici e prende così a modello le sue opere, che rielabora autonomamente. la Lotta di centauri, oggi alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, si richiama alla Battaglia di Centauri del 1873, ma rispetto alla tela di Bticklin predilige un colore materico e cupo.
PARTENZA DEGLI ARGONAUTI (1909, Milano Olio su tela, cm 73 x 92 . Collezione privata)
Rispetto alla precedente, questa tela rivela una maggiore libertà nel trattare lo spunto böckliniano. La stesura grumosa dà vita a una scena mitologica in cui il motivo della villa sul mare e della statua e l’atmosfere di sospensione sono citazioni che desunte dallo svizzero preludono alla pittura metafisica. Le figure di spalle costituiscono un elemento ricorrente nella produzione di entrambi gli artisti.
L'ENIGMA DELL'ORA (1910, Firenze, Olio su tela, cm 54,5 x 70,5. Collezione privata)
Tra le prime opere metafisiche, la tela propone già gli elementi canonici della pittura di de Chirico. Compaiono infatti l’arcata con un marcato gioco tra pieni e vuoti, l’orologio che segna le ore in contrasto con le ombre, due figurine di cui una ammantata e di spalle. Mutuata da Böcklin e sproporzionata rispetto all'architettura, quest'ultima sottolinea la condizione di disagio esistenziale dell’uomo.
ET QUID AMABO NISI QUOD AENIGMA EST? (1911, Firenze Olio su tela, cm 70,5 x 54. Collezione privata)
L’autoritratto ha una doppia datazione, al 1908 e al 1911, che va risolta a favore della seconda. Il profilo malinconico rappresenta un’attitudine spirituale destinata a determinare il percorso artistico e umano di de Chirico. Dalle meditazioni di Nietzsche il pittore desume l’atmosfera assorta e silente e la poesia dell’ora crepuscolare dei suoi quadri.
RITRATTO DELLA MADRE (1911, Roma. Galleria Nazionale d'Arte Moderna)
Nel dipinto, la madre appare a mezzo busto e di profilo davanti a una finestra aperta sul paesaggio che ricorda soluzioni quattrocentesche. L’incisività con cui de Chirico sottolinea il contorno della figura è dovuta alla riflessione sullo stile sintetico di Gauguin, del quale il pittore aveva all'epoca visitato una retrospettiva a Firenze.
L'INCERTEZZA DEL POETA (1913, olio su tela, 1913, Tate Gallery, Londra)
De Chico raggiunge effetti stranianti unendo la consueta piazza italiana, con i portici ombrosi e il treno all'orizzonte, con una singolare natura morta. Se il busto richiama un calco dipinto dal pittore francese Gauguin, il casco di banane inserisce nella composizione un elemento esotico. L’enigmatico rapporto tra le forme, che anticipa la proposta surrealista, stupisce come un’apparizione.
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LA TORRE ROSSA (1913 , Olio su tela, 73,5 x 100,5 cm.Collezione Peggy Guggenheim, Venezia)
La sagoma imponente della torre si impone sulla scena e costituisce l’unica presenza concreta della piazza. Le arcate con il loro ritmo e le loro ombre trasmettono un senso di incompletezza e assenza, come il monumento equestre - tipico esempio di celebrazione rinascimentale - che si intravede a metà, mentre la sua ombre allungata bilancia il verticalismo della torre.
IL CANTO D'AMORE (1914, Parigi, Olio su tela, cm 73 x 59,1. The Museum of Modern Art, New York)
Oltre alle abituali arcate e al treno, che la posizione del firmo rivela fermo, de Chirico raduna elementi secondo nessi incomprensibili. Il guanto - una citazione dal pittore tedesco Max Klinger - evoca l’assenza della mano che lo indossa, il calco ritrae il volto dell’Apollo del Belvedere, mentre la sfere è simbolo di armonia. Magritte dichiarò di aver visto espresso in questo quadro il puro pensiero.
ENIGMA DELLA FATALITÀ (1914)
La sagoma triangolare della tela, caricata di significato simbolico, è pervasa da una atmosfera inquietante per gli oggetti che si affollano misteriosamente in primo piano: il guanto, la X sul porticato, la ciminiera con la sua vertiginosa verticalità. Soprattutto, la prospettiva incongrua, che soffoca lo sguardo e comprime lo spazio, infonde un senso di instabilità all'insieme.
IL CERVELLO DEL BAMBINO (1914, Parigi. Olio su tela, cm 81,5 x 65. Moderna Museet, Stoccolma)
Il quadro apparteneva ad André Breton. Il volto maschile venne ripreso da Max Ernst e da Picasso. la figura con gli occhi chiusi rimanda all'oracolo, uno dei motivi ricorrenti della pittura metafisica. Un accostamento di archi in fuga e linee prospettiche contrastanti, il paradosso di un libro per un uomo cieco introducono una nota spettrale e sfuggente nell'insieme.
IL VATICINATORE (1915, olio su tela, The Museum of Modern Art, New York)
Il quadro risale all'ultimo periodo parigino del pittore. Su una base che richiama il palcoscenico, un manichino siede davanti a una lavagna dove compaiono disegni di prospettive (si distingue anche la parola Torino). Le architetture enigmatiche della chiesa stilizzata e la lunga ombra proiettata da una figura fuori scena, accentuano lo spaesamento determinato dal manichino.
IL FILOSOFO E IL POETA (1915, collezione privata)
L’inquietudine che marca la pittura metafisica di de Chirico viene accentuata nella tela dal tema dell’oracolo, impersonato da un manichino colto di spalle e immerso nella penombra. Il suo sguardo è rivolto verso la volta celeste descritta nel quadro posto sul cavalletto. Il senso di una realtà sfuggente e imperscrutabile viene acuito dall'accostamento a un busto, un richiamo a un passato ormai trascorso.
PROGETTI DELLA RAGAZZA (1916 – New York, Museum of Modern Art)
La natura morta si fonde con la piazza di Ferrara, riconoscibile dal Castello Estense, fino a infondere l’impressione di una stasi innaturale, di un silenzio gravido di incognite. Ritorna il motivo del guanto già presente nel Canto d’amore, che viene ora accompagnato da rocchetti di filo e da una scatola di elastici. Alquanto La natura morta si fonde con la piazza di Ferrara, riconoscibile dal Castello Estense, fino a infondere l’impressione di una stasi innaturale, di un silenzio gravido di incognite. Ritorna il motivo del guanto già presente nel Canto d’amore, che viene ora accompagnato da rocchetti di filo e da una scatola di elastici. Alquanto ellittico rimane il legame tra il titolo e il soggetto.
INTERNO METAFISICO CON OFFICINA (1916-1917 - Olio su tela - cm. 60x50
L’opera partecipa della serie di interni dipinti a Ferrara. Come in uno studio di architetti, attrezzi di misurazione quali squadre e regoli si affollano in modo disordinato. Una finestra si apre su un edificio in cui il gioco di pieni e vuoti viene ripetuto nelle arcate e nelle finestre con frontone. In primo piano, su un cavalletto, è un quadro con una fabbrica, un motivo ripreso e sviluppato da Sironi.
ETTORE E ANDROMECA (1917. Galleria Nazionale d'Arte Moderna, Roma)
De Chirico, appassionato di mitologia, vi attinge come inesauribile fonte di soggetti iconografici, interpretati in chiave metafisica. Ettore e Andromaca sono ridotti a due manichini senza arti superiori e il pittore esprime la loro tragica impossibilità di abbracciarsi. Per tale connotazione sentimentale, che li rende umani, i due personaggi si distinguono dai primi inespressivi manichini.
SOGNO DI TOBIA (1917 - Olio su tela, cm 58,5 x 48. Collezione privata)
Il quadro, che apparteneva al poeta Paul Eduard, anticipa esiti surrealista per l’accostamento di oggetti privi di legame logico, ma anche per l’unione di segni linguistici e iconici: ‘AIDEL’ è una parola greca che significa ‘non-vedente’ ed è carica di significati allusivi. La tela rimanda alla storia biblica di Tobia, cui si riferiscono il pesce e il termometro, metafora di Mercurio e sostituto dell’angelo.
GRANDE METAFISICO (1917-18. Olio su tela : 104,5 x 69,8. The Museum of Modern art, New York)
Come un totem, un manichino di dimensioni inverosimili rispetto ai portici e alle architetture circostanti, domina la piazza deserta. Sullo sfondo si distingue la figurina nera e ammantata delle prime opere di de Chirico. L’assemblaggio di pezzi e strumenti di misurazione della statua, di aspetto spettrale, è completato in cima da una piccola testa senza volto.
PAESAGGIO ITALIANO (PAESAGGIO ROMANO) (1920)
La tela, esposta a Berlino alla mostra di Valori Plastici nell’aprile 1921, è conosciuta con diversi titoli, compreso quello di Sala di Apollo. I personaggi della scena sono desunti da modeffi classici, riscoperti da de Chirico nei musei. Il cavallo sulla sinisira introduce la serie dei cavalli sulla spiaggia degli anni seguenti.
VILLA ROMANA (1921-22. Tempera su tela, 101,5x75,7 cm. New York, Collezione privata)
La tela costituisce una delle opere principali del periodo in cui de Chirico collabora alla rivista “Valori Plastici” e nel clima di ritorno alla tradizione recupera una tecnica - la tempera - e soggetti antichi. Le statue, che sostituiscono i manichini, testimoniano infatti la frequentazione dei musei da parte del pittore: si distinguono per esempio un Apollo e l’Eschilo del Louvre.
LUCREZIA (1922)
La tela, oggi a Roma, venne eseguita da de Chirico quale copia del Suicidio di Lucrezia del tedesco Albrecht Diirer, del 1518, che aveva potuto vedere alla Alte Pinakothek di Monaco. Il soggetto deriva dalla storia romana: la donna, perseguitata e offesa per la sua bellezza, si trafigge per la vergogna. Il fascino statuario del corpo della donna contrasta con la sua intensa espressione di dolore.
RITRATTO DI CASELLA (1924, tempera su tela, 94 cm x 7 cm x 103 cm. Collezione Casa Necchi Campiglio)
Il ritratto del musicista risale al 1924, lo stesso anno in cui de Chirico esegue le scene e i costumi per la rappresentazione teatrale della Giara di Pirandello, con musiche dello stesso Alfredo Casella. Uomo appare in un atteggiamento deciso, l’espressione quasi imbronciata. Le braccia incrociate e lo sguardo che scavalca l’osservatore accentuano la monumentalità della sua posa.
POETA E LA SUA MUSA (1925, olio e tempera su tela cm 91x74 Philadelphia Museum of Art)
Nella tela, oggi a Philadelphia, la musa consola il poeta sconsolato in poltrona; il soggetto verrà ripreso anche negli anni Sessanta. Negli anni Venti de Chirico fonde i suoi manichini con le forme delle statue, con esiti inquietanti per il pallore delle figure, l’inconsistenza plastica dell’ambientazione - affidata a valori grafici - e l’atmosfera tormentata che aleggia nella scena.
CAVALLI IN RIVA AL MARE (1927-1928, olio su tela 129,5 x 96,5 cm)
Il motivo dei cavalli compare negli anni Venti e introduce una nuova serie iconografica. Gli animali possiedono un dinamismo istintivo che ricorda le opere di Delacroix, ma vengono immersi in una dimensione mitologica. In questo dipinto i due cavalli invece avanzano elegantemente con le criniere al vento e ampie code ondulate su di una spiaggia accarezzata dalla luce dell'alba. Il tempio, quasi spettrale sullo sfondo, dipinto con pennellate acquose con gli stessi colori del cielo, e il frontone galleggiante sulle placide acque, come un ricordo affiorante dal mare della memoria, restituiscono un'atmosfera visionaria.
FRUTTA CON TEMPIO (1957, Olio su tela, cm 41 x 51,Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, Roma)
Nel corso degli anni Cinquanta, de Chirico recupera la tradizione pittorica barocca e studia soprattutto le opere di Rubens. In questa natura morta il pittore presenta una pennellata materica e lucida, quasi succosa, che sembra trasferire sulla tela le qualità tattili della frutta. Non a caso l’artista preferisce qualificare la natura morta come "vita silente" perché rappresenta la vita silenziosa degli oggetti e delle cose, una vita calma, senza rumori e senza movimenti, un’esistenza che si esprime per mezzo del volume, della forma, della plasticità.
RUGGERO E ANGELICA (1954. Olio su tela, cm 152 x 103 Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea Roma)
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RITORNO DI ULISSE (1968. Olio su tela, cm 59,9 x 80. Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, Roma)
La tela individua lo stile dell’ultima produzione di de Chirico: la pennellata diviene secca, sottile, quasi disegnata, mentre il vocabolario iconografico ripropone motivi precedenti, come la poltrona e l’armadio, che rimandano ai quadri degli anni Venti e Trenta. Il tema metafisico torna nella citazione delle piazze italiane del quadro appeso alla parete. Ulisse introduce la componente fantastica.