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"Il sogno" di Henri Rousseau il Doganiere (New York, Museum of Modern Art, 1910)
_"Il sogno" di Henri Rousseau

"... Nel 1910, a 66 anni, il Doganiere - debitore del soprannome allo scrittore patafisico Alfred Jarry - realizzò il suo quadro più ambizioso. Si prese tutto il tempo per completarlo. Ad Ardengo Soffici, che visitava il suo studio, comunicò trionfante di aver impiegato ben 50 tonalità di verde. Poi lo espose al Salon des Indépendants, cui partecipava da 25 anni con fedeltà degna di miglior premio. Il Sogno era la summa - fiabesca, sgargiante e trasognata - dell'opera di una vita...".

(Melania Mazzucco)

Bisogna saper finire. L'epilogo  -  di una storia, di una vita, di una carriera  -  non è meno importante del suo inizio. L'ultimo quadro è sempre più significativo del primo. La storia della pittura ci ha consegnato capolavori incompiuti o tenuti segreti: sorprendenti ed estremi. Ci ha rivelato vecchiaie incandescenti e rivoluzionarie, come quella di Michelangelo e Tiziano, che giunsero giovani all'età decrepita. Vecchiaie inaspettate e creative, come quella di Munch, o solitarie e amare, come quella di Piero di Cosimo storpiato dalla paralisi o di Degas cieco. L'epilogo del Doganiere Rousseau è insieme patetico e glorioso  -  contradditorio come la sua vita.

La fine dell'uomo fu triste. Benché a Parigi conoscesse tutti, viveva solo: vedovo due volte, una figlia estranea e lontana, una fidanzata attempata che lo rifiutava a causa della reputazione ridicola e delle condanne penali. Si trascurò, per ricoverarsi all'ospedale troppo tardi. I medici lo considerarono un indigente alcolizzato. Benché negli ultimi tempi avesse invitato in casa sua tutti gli artisti di Montmartre, al cimitero lo accompagnarono in sette. Fra loro, il pittore anarchico Paul Signac. Di Rousseau si rideva, scrisse un giornalista italiano che partecipò a quelle strambe serate: ma non si poteva piangere. In casa sua  -  anche se aveva cominciato a vendere qualche quadro  -  non si trovò un soldo per pagare il funerale, né la tomba. Lo misero in una fossa comune.

La fine dell'artista invece fu uno spettacolare fuoco d'artificio. Nel 1910, a 66 anni, il Doganiere  -  debitore del soprannome allo scrittore patafisico Alfred Jarry  -  realizzò il suo quadro più ambizioso. Si prese tutto il tempo per completarlo. Ad Ardengo Soffici, che visitava il suo studio, comunicò trionfante di aver impiegato ben 50 tonalità di verde. Poi lo espose al Salon des Indépendants, cui partecipava da 25 anni con fedeltà degna di miglior premio. Il Sogno era la summa  -  fiabesca, sgargiante e trasognata  -  dell'opera di una vita.

Il quadro era accompagnato da 8 versi. Rousseau si sognava anche scrittore, e più volte aveva provato a farsi rappresentare nei teatri parigini. Spesso scriveva didascalie per i suoi quadri  -  come i pittori del Medioevo per svelare le allegorie e i donatori degli ex voto la grazia ricevuta. La poesiola dice così: Yadwigha in un bel sogno / essendosi dolcemente addormentata / sentiva il suono di una musetta / da un incantatore ben intenzionato suonata / mentre la luna riflette / sui fiori, gli alberi verdeggianti / i selvaggi serpenti prestano ascolto / alle gaie note dello strumento...

Dunque il quadro rappresenta un sogno. Quello di Yadwigha, la sensuale polacca che anni prima gli era stata modella e amica. Il Doganiere l'aveva già dipinta. Tutto ciò che convocò in questo quadro, aveva già dipinto. La fredda luna, gli enigmatici animali selvaggi, anche il nero incantatore di serpenti (però in vesti femminili, nel 1907). La giungla poi ben 26 volte. Una giungla immaginaria come la Malesia di Emilio Salgari: Rousseau, che a 19 anni, per scampare al carcere dopo un furto di 20 franchi, si era arruolato volontario, non aveva mai viaggiato, e solo per vantarsi coi pittori intellettuali di Montmartre s'inventò di aver combattuto in Messico. Non aveva mai visto una liana, né un uccello del paradiso, le felci solo al Jardin des Plantes e la pantera in un albo illustrato dei grandi magazzini Lafayette. Fra le pareti delle stamberghe in cui viveva poveramente  -  prima con lo stipendio da commesso del dazio, poi da baby-pensionato  -  ricreava mondi misteriosi, in cui acquattarsi come un leone nella giungla. A volte si immergeva talmente nel labirinto della vegetazione dipinta da soffocare: doveva interrompersi, e spalancare la finestra. La sua giungla è esotismo d'evasione. È un paradiso perduto, nemmeno intravisto, disperatamente bramato. Ma è anche claustrofobica, vagamente minacciosa come il mondo reale che lo assediava coi debiti, la tisi, la morte. Il Sogno trascende le giungle, gli esploratori, i bufali, le scimmie, le tigri e gli uccelli che il Doganiere aveva dipinto fino a quel momento. C'è una novità sbalorditiva: il divano. Stile Luigi Filippo, col velluto rosso consunto. Assurdo nella foresta equatoriale come l'ombrello sul tavolo della sala operatoria teorizzato da Lautréamont e poi dai surrealisti. Ma per Rousseau era solo un elemento realistico: Yadwigha, Venere o Maja desnuda dei poveri, dorme nel suo salotto. Nell'opera del Doganiere, gli oggetti acquistano un'evidenza allucinatoria  -  proprio perché sono tutto. Rousseau non si interessa ai problemi teorici, all'atmosfera o alla luce. Vuole solo raffigurare persone, animali, fiori, frutti. Come li vedesse per la prima volta.

Alla fine, questo quadro non racconta il sogno di Yadwigha, ma quello di Rousseau: essere un vero artista. Aveva iniziato a dipingere a 41 anni, da autodidatta, e non aveva più smesso. Tetragono allo scherno dei parenti, dei vicini, dei critici  -  che paragonavano i suoi quadri agli scarabocchi di un bambino, o alle insegne dei negozi. A venderli non riusciva, ma se li regalava, tutti li distruggevano: la figlia, che se ne vergognava, ma anche l'infido amico Jarry, che usò il suo ritratto come bersaglio. I pittori d'avanguardia si divertivano alle spalle di quel buffo e cerimonioso pensionato che credeva di essere il più grande artista moderno. E anche se i suoi quadri primitivi ricordavano l'arte popolare o tribale, e le stampe giapponesi che tanto li entusiasmavano, non lo consideravano uno di loro. Picasso gli organizzò una cena-beffa più crudele di quella del Brunelleschi al Grasso Legnaiolo. Il Doganiere fingeva di non capire. Non era stupido, piuttosto furbo, col gusto della mistificazione (nel 1909 fu condannato per truffa). Accettava la parte del naïf, e continuava a dipingere quadri che sconcertavano per il disegno goffo e maldestro, la mancanza di proporzioni e prospettiva, le figure piatte, senza volume e senza peso, la luce irreale, l'assenza di ombre, i colori selvaggi.

Tutti trovarono bello il Sogno, che finalmente lo vendicò. Ciò che prima era parso difetto affascinava qui come la melodia dell'incantatore: lasciate dormire il Doganiere, la pittura gli si è arresa.



L'opera n. 27
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la Repubblica
L'artista
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Esattamente cent' anni fa, nel 1910, Ardengo Soffici, su La Voce - che era allora la tribuna principale della conoscenza, in Italia, dell'avanguardia artistica francese - pubblicava un saggio sul Doganiere Rousseau, morto quell'anno stesso, instaurando uno strano e sulle prime sorprendente parallelo con Paolo Uccello: "Come lui, Rousseau vive in un mondo strano, fantastico e reale a un tempo - scriveva Soffici - presente e lontano, a volte risibile a volte tragico: come lui si compiace nella dovizia lussureggiante delle verdure, dei frutti e dei fiori, nella compagnia immaginaria d' animali, di belve e d' uccelli, come lui passa la vita nel lavoro, ignorato, raccolto e paziente, salutato da risa e da scherni ogni volta che esce dalla sua solitudine per mostrare al mondo il frutto delle sue fatiche".

    Se da Soffici, poi, risaliamo a Giorgio Vasari, troviamo conferme: Paolo Uccello era stato, a suo dire, "solitario, strano, malinconico", e si ridusse, per non aver "altro diletto che d' investigare alcune cose di prospettiva difficili e impossibili", a "un non so che di stento, di secco, di difficile e di cattiva maniera"; e "consumando il tempo in questi ghiribizzi, si trovò mentre che visse più povero che famoso". Più povero che famoso fu analogamente Rousseau; sul quale s' è presto abbattuta - a muovere dal tempo appena successivo alla morte, e in particolare dall'interesse di alcuni mercanti e gallerie maggiori (Bernheim-Jeune, Paul Guillaume, Rosenberg) - una mitizzazione della singolarissima personalità che ne ha confuso ulteriormente i pochi dati certi della biografia; ma bastano infine le poche notizie circa la sua morte disperata, le esequie da tutti disertate, l'inumazione in una fossa comune, a restituirci lo spessore e i modi di una vita segnata dalla solitudine. A cento anni dalla morte il suo destino s' è ribaltato, e il Doganiere è uno dei pittori più amati dell'età moderna; anche se nessuno sa dire con certezza cosa egli sia stato: realista, "sintetico" sulla via dell'astratto, o naïf?

    Nato da famiglia modesta in una provincia francese nel 1844, Henri Rousseau si stabilì a Parigi nel 1868; si impiegò qua e là, finché non entrò nell'amministrazione statale con l'incarico di "commesso ambulante di seconda classe del servizio datario" (condizione che gli varrà il soprannome di "Doganiere").
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