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"Violet, Black, Orange, Yellow on White and Red"
Mettete sul fuoco una pentola piena d'acqua. A 45 gradi l'acqua sarà calda; a 70 sarà rovente; a 99 vicina al punto di ebollizione: ma sarà sempre ancora acqua. A 100 gradi, non prima né dopo, avverrà il passaggio, ed essa diventerà vapore. Il Rothko del Guggenheim di New York mi fa tornare in mente questa metafora, che proprio lui escogitò (benché non pensasse a se stesso, ma ai minori, i "carpentieri" della pittura). Cercava di spiegare a un amico artista cosa accade quando ci si sbarazza di tutto ciò che si è appreso, ci influenza, ci condiziona e ci opprime (i maestri, i modelli, le teorie, i vari 'ismi') e, proprio come l'acqua - all'improvviso, ma mai per caso - si diventa qualcos'altro: vapore. Cioè, finalmente, se stessi.
"La pittura rovente di Rothko"
Non c'è niente di più affascinante, per chi crea come per chi guarda, che cercare di riconoscere quell'istante. Esplosivo, misterioso, come un'energia sotterranea che si libera, sprigionandosi da un altrove invisibile. Naturalmente un processo psichico e artistico non risponde alle leggi della fisica, e spesso è difficile individuare l'opera in cui un artista abbandona come una morta pelle la crisalide dell'apprendistato, dell'imitazione, del tentativo, e diventa, che so, Pollock, Degas o Kandinsky. Per me Violet, black, orange, yellow on white and red di Rothko coglie proprio l'istante magico e alchemico della metamorfosi.
Il titolo è un denotativo elenco di colori: Rothko quasi mai dava nomi ai suoi quadri, per non soffocare la possibile espansione del significato. Il quadro nasce nel 1949 a New York, dove Rothko vive dal 1926. Ha 46 anni, dipinge da 23: è a metà della sua storia di pittore, ma ovviamente lo ignora. Come tutti gli artisti americani della sua generazione (lui, nato Rothkowitz in una cittadina russa, ora in Lettonia, immigrato a dieci anni negli Usa, ne è diventato cittadino nel 1938), negli anni della Grande Depressione ha sviluppato una radicale coscienza politica e digerito l'obbligatorio realismo sociale. Ha dipinto senza successo enigmatiche scene urbane nella metropolitana di New York. Poi le figure sono sparite, cedendo il posto a biomorfi liquidi, ispirati dal surrealismo. Nel frattempo si è appassionato ai miti, alle culture mesopotamiche e agli archetipi, e ha scritto un arduo trattato teorico (che però non ha pubblicato). Nel 1949 la temperatura della sua acqua sale vertiginosamente. E' un salto brusco. Cambia modo di dipingere. Semplifica, appiattisce, depura. Elimina ogni ricordo della figurazione e ogni ostacolo concettuale (memoria, storia, geometria). Riduce la pittura alla sua materia: canapa, pennello, pigmenti. Sulle sue tele ora galleggiano colorate forme senza nome (le chiama 'multiformi'). Non significano niente e non rimandano a nessuna realtà ulteriore. Forse somigliano solo alle immagini ipnagogiche che flottano nel buio delle palpebre chiuse. Nel corso del 1949 queste forme si stabilizzano: diventano bande orizzontali di colore, che il pittore dispone con ordine sulla superficie del quadro. I colori non creano più le forme, sono diventati essi stessi forme e volumi. Le tele sono cresciute: spazi vasti, talvolta immensi. (Rothko avrebbe dichiarato poi che un quadro di grande formato è più intimo e umano, perché ti permette di abitarlo, di 'starci dentro'). I quadri non sono più finestre o porte sul mondo: sono facciate, muri, pareti. La temperatura raggiunge i 99 gradi. Nasce Violet, black, orange, yellow on white and red. Rothko pretendeva silenzio. Non voleva spiegare né interpretare i suoi quadri e derideva chi si azzardava a farlo (storici del-l'arte, critici, esperti). Voleva che avessero la pregnanza e la fascinazione della musica e della poesia: che fossero esperienze emozionali, non verbalizzabili. Insomma, che trasportassero in una realtà altra - metafisica, quasi sacrale, diciamo pure trascendente. Ma io non possiedo altro che parole. Dunque è un rettangolo alto più di due metri e largo un metro e sessantasette. I colori sono disposti armonicamente su fasce sovrapposte. Non coprono tutto il fondo della tela, preparata col bianco, che forma così una sorta di cornice. O meglio, di alone. Da questo emergono, come illuminati dal retro, i colori. La banda più scura (e più pesante), viola, è posta in alto, in modo da impedire alle altre (più leggere, trasparenti e immateriali) di disgregarsi. Il giallo ha quasi smangiato l'arancio: irradiano entrambi un riverbero caldo e soffuso, come un velo che fluttua davanti alla luce. Il nero che sorregge la banda viola è ridotto a una linea - come quando spegnevi il televisore e l'immagine veniva risucchiata illusoriamente all'interno dell'apparecchio. Effetto ottico non estraneo ai quadri di Rothko, che danno spesso l'impressione di vibrare, palpitare e muoversi come cose viventi - dilatandosi e proiettandosi in avanti, oppure contraendosi all'interno. E' decisamente "un Rothko". Infatti - almeno nelle opere del suo cosiddetto periodo classico, che si inaugura nel 1950 e si conclude con la sua morte, nel 1970 - è uno degli artisti più 'iconicì e riconoscibili del secondo Novecento. Ci sono già i quattro colori prediletti, che declinerà in ogni sfumatura nel decennio a venire: il violetto dal magenta al lillà, lavanda, malva e lampone; il giallo-arancio dal mandarino allo zafferano; il rosso dal cremisi fino al porpora e al prugna. Questi colori pulsanti, divenuti strumenti per agire sulla sensibilità dello spettatore, già creano l'effetto di infinito associato ai Rothko della maturità. Nello stesso tempo, questa è ancora un'opera di transizione. Siamo a 99 gradi: l'acqua gorgoglia, le bollicine salgono verso la superficie, l'ebollizione è imminente. Ma c'è ancora un residuo - qualcosa che impedisce al liquido di vaporizzarsi. Sono le due verticali: le rosse strisce simmetriche poste ai lati delle bande orizzontali. Sembrano voler contenere il colore, supportarlo come colonne. In un certo senso lo imprigionano. Però sono già esili, evanescenti come un riflesso. Sul punto di dissolversi in vapore, insomma. Questo quadro è un privilegio. Anche l'incandescenza delle strisce rosse lo rivela come il crogiolo dove avviene la fusione. Si dice che, quando scoprì il principio che poi ricevette il suo nome, Archimede abbia gridato: Eureka! Ho trovato! Rothko dovette provare la stessa euforia di una rivelazione, quando completò il quadro - che forse realizzò in un solo giorno, giacché lo pensava a lungo ma lo eseguiva in un baleno. Aveva distillato l'essenza della sua pittura. Le braci verticali non compariranno mai più. Il nudo nella pittura inizio '900
Dall'archivio di Repubblica, l'estratto di un articolo di Fabrizio D'Amico su Rothko e la sua pittura
Ebreo russo nato nel 1903, Rothko è giunto presto negli Stati Uniti; dal ' 25 si stabilisce a New York, ove tiene una personale ad "Art of this Century" di Peggy Guggenheim nel ' 44. Insegnante dal ' 48 in una scuola d' arte che ha fondato con Baziotes, David Hare e Motherwell, si lega alle importanti gallerie di Betty Parsons prima, di Sidney Janis poi, fino alla clamorosa rottura con quest' ultimo nel ' 62, per protesta contro il sostegno dato dal mercante alla Pop; riconosciuto come uno dei massimi interpreti della pittura americana fin dai primi anni Sessanta, quando il Moma di New York e molti musei europei gli dedicano ampie mostre retrospettive, muore suicida nel 1970, alla vigilia dell'inaugurazione d' una grande sala personale di sue opere alla Tate Gallery di Londra.
È un pittore - certo uno dei maggiori del secolo ventesimo - di cui, conosciuta l'opera, è difficile non subire per sempre il fascino. Da un colore variato, respirante, mai fermo, chiuso in forme imperfettamente geometriche che sembrano galleggiare come in un amnio, Rothko giunge, alla fine della vita, a un colore severo e immoto, diviso da una lunga striscia che, simile ad un ininterrotto orizzonte, percorre l'intera lunghezza del dipinto - un colore cieco ora di profondità e spessori, tutto di nuovo e soltanto dato sulla superficie. Nel 1961 tenne al Moma di New York la sua prima retrospettiva, che risultò essere per lui un momento cruciale: da allora si manifestò chiaramente l'idea che la sua opera dovesse mirare ad essere un organismo plastico unitario, dotato di vita e di capacità autonoma rispetto agli elementi (i singoli quadri) di cui era costituito: nella sua pittura, voleva che ci si perdesse: rinunciando a pretendere per essa un'esperienza lucidamente razionale o cognitiva, per attingerne invece una emotiva, esistenziale, interamente coinvolgente. Per questo, dopo l'antologica di New York, Rothko fu soprattutto interessato a rispondere a poche, grandi commissioni che prevedevano la possibilità di collocare vaste serie di suoi dipinti, stabilmente, in spazi museali, o comunque pubblici. Sino a quando, alla maggiore di quelle commissioni - una cappella, che volle multiconfessionale a Houston - Rothko destinò ogni sua energia, dal ' 64 al ' 67, ed oltre: sino a smarrire in quell'impresa come la sua ultima fiamma. In quella cappella, inaugurata appena dopo la sua morte, Rothko aveva cercato quella che Dore Ashton chiamerà "un'espressione della divinità senza un Dio"; e in essa darà figura compiutamente a quel luogo che cercava, creato dal colore - rosso, bruno, nero - e svelato dalla poca luce che lentamente lo avvolge e lo trascina nello spazio della contemplazione, affine ma più complesso di quello unicamente pertinente alla pittura. |
L'Opera n. 45
"Non c'è niente di più affascinante, per chi crea come per chi guarda, che cercare di riconoscere quell'istante. Esplosivo, misterioso, come un'energia sotterranea che si libera, sprigionandosi da un altrove invisibile. Naturalmente un processo psichico e artistico non risponde alle leggi della fisica, e spesso è difficile individuare l'opera in cui un artista abbandona come una morta pelle la crisalide dell'apprendistato, dell'imitazione, del tentativo, e diventa, che so, Pollock, Degas o Kandinsky. Per me Violet, black, orange, yellow on white and red di Rothko coglie proprio l'istante magico e alchemico della metamorfosi. (Di Melania Mazzucco)
L'Autore
SusaSnne valadon
Mark Rothko
BiografiaAnche Rothko, come Chagall e Modigliani, ha dovuto rapportarsi alle proprie radici ebraiche. In particolare, come tutti i pittori tra la fine del XIX sec. e la prima metà del XX, ha dovuto affrontare il dilemma della raffigurazione umana, rischiando di contraddire il precetto del secondo comandamento: “Non ti farai idolo ne immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non lì servirai (…)” [Esodo 20, 4-6].
Marcus Rothkowitz nasce il 25 gennaio 1903 a Dvinsk, in Russia, ultimo dei quattro figli del farmacista Jacob Rothkowitz e di Anna Goldin. A Differenza dei suoi fratelli viene educato alla scuola ebraica. Il padre Jacob emigra negli Stati Uniti nel 1910 e si stabilisce a Portland dove raggiunge suo fratello, proprietario di una fabbrica di capi di abbigliamento. Gli altri membri della famiglia Rothkowitz giungono a Portland nel 1913. Si stabiliscono nel quartiere ebraico di Portland e parlano solo russo e yiddish. Nel 1918 Marcus si iscrive alla Lincoln High, dove frequenta anche un corso di teatro. Contemporaneamente lavora nella fabbrica dello zio. Nel tempo libero produce alcuni schizzi e disegni. A Yale studia psicologia e storia della filosofia. Mark Rothko, approda alla pittura alla fine degli anni ‘20, dopo vari tentativi di liberarsi della figura approda a un nuovo linguaggio fatto solo di grandi macchie di colore, nelle quali immetteva tutta la sua forte sensibilità esistenziale. La pittura Rothko diede vita al movimento artistico dell’Espressionismo astratto. Verso la fine degli anni ‘40 il parto avviene: Rothko sperimenta un astrattismo assoluto, con quadri fatti di campiture colorate, spesso di grandi dimensioni; i toni si assestano con un ordine nuovo, si semplificano, puntano verso una loro assoluta essenzialità. Sono le sue opere più tipiche, quelle del periodo successivo alla guerra, in cui dipingeva su tele di notevoli dimensioni delle specie di grandi campiture dal colore intenso su uno sfondo di altro colore contrastante. Visto che secondo il critico Greenberg, questi quadri, come gli altri degli espressionisti astratti, non sono che “la traduzione di miti e di archetipi venuti dal fondo dei tempi”, se non vi trovassimo degli elementi ebraici dovremmo concludere che poco di ebraico vi era in Rothko in genere. E’ necessario scendere quindi nel messaggio che l’artista ci vuole trasmettere, e non limitarsi, come pure alcuni fanno, a sottolineare che l’ebraismo in Rothko emerge già nel fatto di avere scelto la strada dell’astrazione, mettendosi così al riparo dalle indicazioni contenute nel 2° comandamento (“Non ti farai immagine”). Rothko, che diceva dei suoi quadri “pictures are dramas, the shapes are perfomers” a dire che le sue tele sono lì a raccontarci una storia da leggere, da interpretare. Si può osservare innanzitutto come le grandi campiture di colore, così intenso, trasmettono una forte sensazione di diversità della persona (o del concetto) a cui si riferiscono rispetto al mondo che li circonda. C’è chi trova un legame fra questo atteggiamento e la stessa biografia di Rothko, sentitosi tanto alieno in Lituania da dover emigrare negli Stati Uniti, per trovarsi anche lì a fronteggiare un chiaro antisemitismo, perfino nella Yale degli anni ’20. Certo l’alienazione è il tipico male della società moderna, inteso a livello individuale, ma questa sensazione, a livello di gruppo, gli ebrei l’hanno vissuta prima di tanti altri, e Rothko comunque la sentiva con tale intensità da finire suicida nel 1970. Nelle sue opere le campiture di colore non vengono mai disegnate in modo netto con confini ben definiti. Il messaggio che trasmettono non è di un universo ben ordinato e diviso fra concetti diverse e distinte fra loro; al contrario, esiste sempre un confine labile in cui il colore della campitura si mischia con quello dello sfondo senza perdere la propria identità. Rothko pone in risalto tutte queste differenze cromatiche, di modo che le campiture e ciò che rappresentano si trovano a interagire fra loro quasi fossero contrapposte. L’opera è frutto quindi del confronto fra persone o concetti diversi, che non si snaturano in questo loro dialogo; nasce cioè mettendo assieme personalità o pensieri diversi, non appiattendoli in una uniformità improduttiva di facciata. Si tratta evidentemente di un’impostazione molto più legata al procedere talmudico che alla cultura classica europea, in cui la diversa e ben motivata opinione è un bene prezioso che arricchisce l’analisi. E a dare man forte in questa interpretazione talmudizzante dell’opera di Rothko si può citare addirittura un convegno alla Yeshiva University, in cui Rav Broveder sosteneva di vedere nei suoi quadri una profonda “neshama” ebraica. Certo Rothko non è l’unico nel 20esimo secolo a insistere sulle differenze invece che sulle somiglianze, ma fu certo uno di quelli che vi insistettero di più e che fu un caposcuola in questo. E se tanti hanno seguito le sue orme, forse possiamo prendere per buona, senza darle troppa importanza, la sua frase “Art is assimilating Judaism”. Le opere
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