"Cinema a New York" di E. Hopper
I cinema nel
cuore delle nostre città chiudono uno dopo l’altro. Un giorno forse dovremo
spiegare alle nuove generazioni, abituate a consumare film sullo schermo del
loro computer, cos’ha significato per i loro genitori, nonni, bisnonni, passare
dalla luce acida dell’atrio delle biglietterie all’oscurità avvolgente della
sala, prendere posto sulle poltrone di velluto (o di legno), lasciarsi
abbracciare dal buio e guardare insieme agli altri uno schermo gigantesco, su
cui per novanta minuti danzano le ombre. Allora forse essi guarderanno Cinema a
New York di Edward Hopper come noi gli affreschi pompeiani della Villa dei
Misteri, che raffigurano un rito enigmatico e inspiegabile, ancora capace però
di trasmetterci la sua seduzione.
Ma nel 1939, quando Hopper dipinse questo quadro, il cinema viveva, in tutto il mondo, la sua età dell’oro. Il divismo regalava splendore e bellezza, i biglietti costavano poco. Negli anni Trenta — fra bancarotte, fallimenti e Depressione — i disoccupati trascorrevano ore nelle sale ben riscaldate, i ragazzi vedevano un film al giorno, e tutti entravano per sognare — avventure, amore, delitti. Il buio della sala consentiva ogni evasione, trasgressione, libertà. Hopper era nato nei dintorni di New York, e viveva in un appartamento al n.3 di Washington Square. I lussuosi cinema di Manhattan ti facevano sognare ancor prima di varcare la soglia. Hopper dipingeva con parsimonia, e ha lasciato appena un centinaio di tele. Svariate raffigurano platee e gallerie di cinema o teatri, prima dello spettacolo, col sipario ancora abbassato e file di poltrone vuote. Un tema emblematico, perché duraturo: la prima Figura solitaria in un teatro è del 1902, Due nella platea del 1927, The Sheridan Theatre del 1937, First row orchestra del 1951, Intervallo del 1963. Benché avesse messo a punto il suo stile in un’epoca dominata dalle avanguardie e tesa all’astrattismo, credeva nella rappresentazione della realtà e nella fedeltà oggettiva della visione. Impiegava molto tempo a trovare un soggetto che lo colpisse, e poi a decidere le proporzioni della tela. L’idea del quadro nasceva sempre “dal fatto” — cioè “dal vero”: una casa spettrale lungo la ferrovia, un faro, una strada, una finestra. Ma non prendeva il pennello se non aveva tutto chiaro in mente: l’immagine doveva spogliarsi di ogni dettaglio aneddotico per diventare una faccenda di forme, volumi e soprattutto luce. Nel 1939 Hopper era già il pittore vivente più acclamato d’America. A quarant’anni aveva potuto abbandonare il mestiere di illustratore di pubblicità e disegnatore di poster (anche cinematografici). Nel 1933 il Museum of Modern Art gli aveva dedicato una retrospettiva. La critica lo aveva incoronato come il tanto atteso artista “autoctono”: un realista, come i narratori della sua generazione (Theodore Dreiser, Sherwood Anderson). Con la sua pittura rigorosa e “puritana” aveva saputo cogliere l’essenza dell’America moderna, lo squallore della vita quotidiana, l’alienazione, la solitudine. La tristezza del paesaggio urbano di domenica, i luoghi anonimi come i diner, le camere d’albergo e di motel. Nei suoi quadri dominati dagli spigoli delle architetture e da schemi cromatici essenziali, compaiono pochissimi personaggi, sempre isolati, persi nel loro silenzio. Hopper riconosceva invece il suo debito con la pittura europea — che aveva approfondito a Parigi nel 1907-08 — anche se ammetteva che un artista è poco indicato a riconoscere gli influssi decisivi. Nominava Rembrandt, Goya, Manet e Degas. È Degas quello cui doveva di più. Nei quadri di Degas ambientati in squallide stanze d’albergo, uffici deprimenti, stirerie, caffè e platee buie di teatri, vi sono già molti futuri Hopper, e anche questo. La superficie è divisa in due parti asimmetriche. Non si tratta di un montaggio, due fotogrammi incollati alla moviola: è la simultaneità che conta, il tempo fermo, pietrificato in un unico attimo — insignificante e al tempo stesso gravido di misteriosa attesa. A sinistra, la platea di un cinema (il Palace di Times Square), immersa nell’oscurità grigio-azzurra, come una grotta. Gli stucchi, i rossi e gli ori stridono con la sala semideserta, in cui si distinguono appena due sagome: un uomo e una donna, seduti in file differenti. Il cinema di Hopper non è meno desolato della pompa di benzina di Gas, o del locale dei Nottambuli. Il film proiettato sullo schermo è solo un’ombra confusa. Però guizzante e mobile, quasi fosse l’unica cosa viva. La parete che separa la sala dal corridoio è interrotta. A destra, la luce elettrica illumina un non-luogo di passaggio, dove indugia una donna, la mascherina in divisa. Indifferente al film che si proietta là dietro, è immersa nei suoi pensieri. Sul fondo, la scala che conduce alla galleria. Le tende accostate lasciano che lo sguardo si inoltri, e forzando i margini del quadro esca dai confini della scena rappresentata. La figura della donna malinconica — che sembra il marchio di fabbrica del pittore e compare infatti, in pose analoghe, in molti suoi quadri — è invece quella che costò più travaglio a Hopper. Dai disegni preparatori sappiamo che inizialmente la immaginò mentre accompagnava in sala uno spettatore. Poi com’è adesso, ma più vecchia e meno attraente. Hopper, “carattere di pietra”, era laconico come i suoi quadri. Non commenta mai, non divaga, non sottolinea — né con le parole né con le immagini. Ma ha ripetuto spesso che l’arte è forse anche piacere, ma certamente è fatica. Ogni opera è frutto di un difficile lavoro di sintesi. Semplificazione, quasi denudamento. Così eliminava sempre tutto ciò che poteva affascinare, ornare o svolgere una funzione decorativa. E in Cinema a New York smaschera la rutilante macchina dei sogni hollywoodiana. Non il film sullo schermo, ma una prosaica teoria di gradini svolge la funzione di suggerire l’altrove. Non c’è arte possibile se non nella verità delle cose. Hopper, hanno scritto, era un «maestro la cui poesia era il realismo». Una frase quasi identica aveva scritto Valéry per Degas. Il pittore amato dal cinema di Antonio Monda Dall'archivio di "Repubblica", un articolo sull'influenza che Hopper ebbe sulla settima arte La donna, in sottoveste rosa, è chinata, e cerca qualcosa che non riusciamo a vedere. Non possiamo comprenderne l' età, ma la naturalezza del suo gesto la fa sembrare giovane. Le finestre sono aperte, e le tende ondeggiano per il sollievo di un po' di vento estivo. Anche del palazzo, immerso nel buio, non riusciamo a vedere molto, e ciò che risalta è la modestia della stanza ammobiliata, riscaldata appena dalla luce elettrica. E' una istantanea, quella che ci consegna Edward Hopper, il fermo-fotogramma di una vita che non possiamo conoscere, ma in cui intuiamo la necessità di calore che ci accomuna tutti. E' una immagine alla quale l' autore ha dato il titolo di Night windows, ma che potrebbe essere stata presa da quel capolavoro del cinema che è La finestra sul cortile. Pochi artisti hanno influenzato il linguaggio dell' immagine in movimento come Hopper. William Wyler terrà bene a mente la lezione hopperiana nel realismo della sua trasposizione cinematografica, mentre le intuizioni di questo pittore innamorato della settima arte cominciano ad influenzare i registi più sensibili. E' nei quadri di solitudine urbana che risaltano i primi fermenti del cinema noir, ed è nella distanza che si frappone tra una coppia che non si ama più (Room in New York) la rappresentazione visiva di quello che è stato chiamato cinema dell' incomunicabilità. Se anche Blow-up trova un posto d' onore all' interno dell' esposizione, l' analisi appassionata con cui gli organizzatori confrontano i quadri con le opere di registi apparentemente distanti, regala suggestioni inedite: l' immagine dal treno di Approaching a city sembra un fotogramma rubato ad un film neorealista italiano, mentre dalla Casa sulla ferrovia derivano immagini di film diversissimi come Psycho, Il gigante e I giorni del cielo. Persino i grandi spazi di Paris, Texas e dell' Ultimo spettacolo derivano dai panorami assolati della provincia sconfinata, mentre, già nella Folla, King Vidor rielaborava il senso di alienazione di chi vive in luoghi stretti e prova nostalgia dell' infinito. E se sono innumerevoli i film influenzati da Nighthawks, di fronte a New York movie e ad Early Sunday Morning non si può non pensare alla eroina di Woody Allen che fuggiva l' opacità della propria esistenza innamorandosi di un personaggio alla ricerca della Rosa purpurea del Cairo. |
L'Opera n. 24
L'Autore
Edward Hopper (Nyack, 22 luglio 1882 – New York, 15 maggio 1967) è stato un pittore statunitense famoso soprattutto per i suoi ritratti della solitudine nella vita americana contemporanea.
Hopper nacque a Nyack piccola cittadina sul fiume Hudson, nel sud-est dello stato di New York. I suoi genitori, Garret Henry ed Elisabeth Griffiths Smith, provenivano dalla colta borghesia angloamericana. Già dall'età di cinque anni Edward Hopper dimostrava una spiccata abilità nel disegno. I suoi genitori, scoperta questa dote, lo incoraggiarono facendogli leggere riviste e libri sull'arte. Nel 1895 dipinse il suo primo quadro dove mostrava particolare interesse verso le navi e tutto ciò che è legato ad esse. Nel 1899 seguì un corso per corrispondenza presso la New York School of Illustrating. Nighthawks (I nottambuli) (1942) Art Institute of Chicago Gli inizi Nel 1900 cominciò a frequentare la New York School of Art, diretta da William Merritt Chase, seguace dell'impressionismo europeo. Nell'istituto si trovò a fianco di altri futuri protagonisti della scena artistica americana dei primi anni cinquanta: Guy Pène du Bois, Rockwell Kent, Eugene Speicher e George Bellows. Importante per la sua formazione e crescita fu il contatto con lo stesso William Merrit Chase, che lo avrebbe incitato a studiare, e con Robert Henri, titolare del suo corso di pittura. Nel 1906 compì il suo primo viaggio a Parigi, prendendo alloggio alla Missione Battista in Rue de Lille, non lontano dal Louvre. Fu affascinato dalla pittura impressionista e dai poeti simbolisti. Tornato in patria, trovò lavoro come illustratore pubblicitario per la C. C. Phillips & Company. Questa occupazione costituì per lui fino al 1925 l'unica fonte di reddito. I viaggi all'estero Dopo Parigi, nel 1907 si recò in viaggio a Londra, Berlino e Bruxelles. Nel 1909 tornò a Parigi e vi rimase da marzo ad agosto, risiedendo nel Quartiere Latino. La Senna che scorreva poco lontano e le numerose imbarcazioni che la solcavano gli diedero ispirazione per i quadri di ambiente parigino. Dipinse a Saint-Germain-des-Prés e a Fontainebleau facendo emergere dalla lezione impressionista uno stile personale ed inconfondibile, formato da precise scelte espressive. Tornando in patria, portò con sé una collezione di disegni umoristici di Albert Guillaume e Jean-Louis Forain. Durante il suo terzo e ultimo viaggio all'estero, a Parigi e in Spagna nel 1910, Hopper perfezionò il suo particolare e ricercato gioco di luci e ombre, la descrizione di interni, imparata da Degas, e il tema centrale della solitudine e dell'attesa. Mentre in Europa prendevano piede il fauvismo, il cubismo e l'astrattismo, Hopper veniva attratto per lo più da Manet, Pissarro, Monet, Sisley, Courbet, Daumier, Toulouse-Lautrec e dal più antico Goya. Il ritorno in patria Tornato stabilmente negli Stati Uniti, che non lasciò più, Hopper abbandonò le nostalgie europee che lo avevano influenzato sino a quel momento, ed iniziò ad elaborare soggetti legati alla vita quotidiana americana, modellando il suo stile alla vita di tutti i giorni. Tra i soggetti che prediligeva vi erano soprattutto immagini urbane di New York e le scogliere e spiagge del vicino New England. Nel 1913 si tenne a New York l'Armory Show, la prima mostra che introduceva al pubblico degli Stati Uniti la pittura delle avanguardie europee. Hopper partecipò a questa mostra con il suo dipinto Sailing, che non incontrò tuttavia il favore del pubblico. Dal 1915 abbandonò temporaneamente la pittura per perfezionarsi nella tecnica dell'incisione (di cui poi dirà che gli era stata utile per "cristallizzare" il suo stile pittorico), eseguendo puntesecche e acqueforti, grazie alle quali ottenne numerosi premi e riconoscimenti, anche dalla prestigiosa National Academy of Design. Soir Bleu (Sera azzurra) (1914) Whitney Museum of American Art Nel 1918 fu uno dei primi membri del Whitney Studio Club, il più vitale centro per gli artisti indipendenti americani dell'epoca. Proprio al Whitney Studio nel 1920 tenne la sua prima personale, dove fra gli altri lavori venne esposto Soir bleu. Il titolo del dipinto si ispira al primo verso di Sensation[1], poesia di Arthur Rimbaud che parla dei piaceri del vagabondaggio. Hopper mette in scena sulla terrazza di un café parigino un insieme di personaggi eterogenei: a destra una coppia di borghesi, a sinistra un protettore. Al centro, di spalle un ufficiale, di profilo un personaggio barbuto, probabilmente un artista, di fronte un pierrot e sullo sfondo una prostituta. Questo lavoro segna in qualche modo l'addio all'atmosfera felice che aveva segnato i suoi soggiorni francesi e all'Europa che lo aveva fino ad allora ispirato. Fortemente criticata e perciò disconosciuta dall'autore, la tela, arrotolata e dimenticata, fu ritrovata nel suo studio solo dopo la sua morte ed è stata oggetto di un'attenta rivalutazione alla luce delle successive esperienze dell'artista e delle sue influenze europee. In questo edificio adiacente il Washington Square Park di New York, si trovava lo studio di Hopper Il successo Nel 1924 alcuni suoi acquerelli furono esposti a Gloucester nella galleria di Frank Rehn. La fortuna critica e il successo di pubblico diedero una significativa svolta alla carriera di Hopper, che finora si era guadagnato da vivere come illustratore di riviste. In quello stesso anno Hopper sposò Josephine Verstille Nivison, anch'ella ex-studente di Robert Henri alla New York School of Art. Josephine fu l'unica modella per tutti i personaggi femminili che avrebbe dipinto da allora in poi. Il successo ottenuto con la mostra alla Rehn Gallery contribuì a fare di Hopper il caposcuola dei realisti che dipingevano la "scena americana". Nel 1925 la sua tela intitolata Apartment Houses venne acquistata dalla Pennsylvania Academy. Questo fu il suo primo lavoro a olio a entrare in una collezione pubblica e il primo quadro venduto dal 1913 in poi. Nel 1930 la famosa House by the Railroad, che sarebbe servita ad Alfred Hitchcock come modello per la casa in stile "secondo impero americano" di Psyco, venne donata dal collezionista Stephen C. Clark al MoMA di New York, entrando a far parte della collezione permanente del museo. Dopo tre anni, lo stesso MoMA gli dedicò la prima retrospettiva. La sua evocativa vocazione artistica si rivolgeva sempre più verso un forte realismo, che risulta la sintesi della visione figurativa combinata con il sentimento struggente e poetico che Hopper percepiva nei suoi soggetti. Diceva: "non dipingo quello che vedo, ma quello che provo". Nel 1934 Hopper acquistò una casa a Truro (Massachusetts), nella penisola di Cape Cod, dove da allora iniziò a passare regolarmente i mesi estivi. Il paesaggio di Cape Cod, con le sue dune, case e fari, si ritrova in molti suoi dipinti, come The House on The Hill, Cape Cod Evening o Cape Cod Morning. Il Whitney Museum of American Art gli dedicò la seconda retrospettiva nel 1950 e, nel 1956 la rivista TIME gli rese omaggio con una copertina. Hopper morì a 85 anni il 15 maggio 1967 nel suo studio nel centro di New York. Oggi è considerato uno dei grandi maestri americani, citato in qualche caso come precursore della Pop Art. La pittura di Hopper Hopper utilizzò composizioni e tagli fotografici simili a quelli degli impressionisti che aveva visto dal vero a Parigi, ma di fatto il suo stile fu personalissimo e imitato a sua volta da cineasti e fotografi. La pittura di Hopper predilige architetture nel paesaggio, strade di città, interni di case, di uffici, di teatri e di locali. Le immagini hanno colori brillanti ma non trasmettono vivacità, gli spazi sono reali ma in essi c'è qualcosa di metafisico che comunica allo spettatore un forte senso di inquietudine. Non a caso André Breton, nel suo esilio a New York, lo accostava a Giorgio De Chirico in un'intervista pubblicata su View nel 1941. La composizione dei quadri è talora geometrizzante, sofisticato il gioco delle luci fredde, taglienti e volutamente "artificiali", sintetici i dettagli. La scena è spesso deserta, immersa nel silenzio; raramente vi è più di una figura umana, e quando ve ne è più di una, sembra emergere una drammatica estraneità e incomunicabilità tra i soggetti. La direzione dei loro sguardi o i loro atteggiamenti spesso "escono dal confine del quadro", nel senso che si rivolgono a qualcosa che lo spettatore non vede. Di lui è stato detto che sapeva "dipingere il silenzio". Particolare spazio nelle sue opere trovano le figure femminili. Cariche di significato simbolico, assorte nei loro pensieri, con lo sguardo perduto nel vuoto o nella lettura, si offrono spesso seminude ai raggi del sole trasmettendo solitudine, attesa, inaccessibilità. Una dimensione psicoanalitica che ha permesso di interpretare meglio le emozioni dell'artista. |