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"La presentazione di Maria al Tempio"
Il nostro viaggio è iniziato con una porta: la soglia del Parnaso di Paul Klee. Finisce con una scala. La scala dai gradini luccicanti d'oro che molti anni fa Jacomo Robusti detto Tintoretto mi ha invitato a salire - con umiltà ma senza paura, come la piccola protagonista della sua tela.
Dalla Pasqua del 1556, la tela è appesa nella chiesa della Madonna dell'Orto, a Venezia. A qualche metro dal suolo, emana una luce propria nella penombra della navata. In origine era divisa in due parti, identiche, che foderavano gli sportelli dell'organo. Nel XVI secolo la Madonna dell'Orto era la chiesa di un monastero di monaci intellettuali e musicisti. I notabili ci si sposavano e ci si facevano seppellire; gli altri ci ascoltavano i predicatori e i concerti. Ma quando le ante si schiudevano e l'organo suonava, il dipinto non si vedeva più. "Suonava" nel silenzio: aveva la stessa funzione mistica della musica. L'armonia in chiaroscuro
La presentazione di Maria al tempio è stata la mia porta d'ingresso nel Museo del Mondo. L'emozione indelebile di quella visione ha alimentato la mia sete d'arte e di artisti, e una ricerca potenzialmente infinita. Da allora, frequento la bottega di Tintoretto (così soprannominato per il mestiere del padre e l'esigua statura). Aveva un "terribile cervello", ovvero una mente geniale, un carattere ispido come i ricci della sua barba, e non accettava in bottega garzoni cui dover insegnare i rudimenti della pittura. Solo lavoranti già capaci di fargli da assistenti. Fece un'eccezione per la figlia e i figli, ma questa è un'altra storia - e l'ho raccontata altrove. I genitori si ereditano, i maestri si cercano e poi si scelgono - e così Tintoretto è diventato il mio.
Fu incaricato di dipingere La presentazione di Maria nel 1548, per 5 scudi, 1 botte di vino e 2 stare di farina: aveva 29 anni, talento prepotente e sconfinata ambizione. Con la volontà feroce degli autodidatti, aveva assimilato la maniera di Raffaello, Michelangelo, Tiziano, Giulio Romano, ma non aveva ancora elaborato una propria lingua e liberato la sua originalità. Però nello stesso 1548 si affermò come il pittore più promettente della nuova generazione, e ignorò la commissione. Nel 1551 ridiscusse il contratto, come farebbe un calciatore nel frattempo richiesto da squadre più blasonate, e riuscì a strappare un aumento. Tintoretto, di inesauribile immaginazione ed energia, seminò fino alla morte centinaia di quadri negli edifici pubblici di Venezia: La Presentazione di Maria fu l'unico che riscosse entusiasmo unanime. Perfino i suoi detrattori, che lo biasimavano come sbrigativo mestierante, ammirarono la raffinata armonia della composizione, la plasticità delle figure, il gioco del chiaroscuro, la qualità del disegno e del colore. Illustra un episodio dei Vangeli apocrifi e della Legenda Aurea. Anna e Gioacchino hanno consacrato a Dio la loro tardiva figlia Maria: verso i 5 anni la conducono al Tempio di Gerusalemme, dove sarà educata con altre vergini. Tintoretto omette i genitori e fa della bambina il fulcro dell'immagine. Sintetizza la città nella folla e riduce l'architettura dell'edificio all'imponente scala di 15 gradini, vista con prospettiva dal basso - la stessa dello spettatore. Costringendolo a muovere gli occhi per seguire la bambina, mette in movimento la scala stessa, e lo coinvolge nella scena. L'oro sparso sui gradini barbaglia una luce calda e avvolgente di prodigio. La figuretta esile di Maria si staglia in controluce. Allo spettacolo assistono storpi e mendicanti (risucchiati nell'ombra ma resi in scorci virtuosistici), scribi, signori e soprattutto donne. Una processione di velate coi ceri avanza dal fondo; le altre (con le figlie tra le braccia o al seno) formano una specie di coro, sul proscenio.Una sinfonia femminile di donne di ogni età - lattanti, bimbe, adolescenti, madri, anziane - come se il quadro fosse una meditazione sul loro ruolo, e destino. Scelta singolare per il telero della chiesa di un monastero maschile. Ancora più singolare la figura al centro dell'immagine - la bionda di spalle, col piede sollevato. Un piede scalzo in una chiesa, cinquant'anni prima di Caravaggio. I pittori ideavano i propri quadri rielaborando quelli con lo stesso soggetto che avevano visto dal vero o su riproduzioni a stampa. Tintoretto tenne presente quelli di Tiziano e di Daniele da Volterra, allievo di Michelangelo. Ma la monumentale donna con la spalla nuda è una sua invenzione. La donna e la figlia accanto a lei - con gli abiti e l'acconciatura delle veneziane del '500 - sono dipinte con tale tenerezza e verosimiglianza che subito si generò la leggenda che rappresentassero l'amante del pittore e la sua diletta figlia. Tintoretto aveva davvero avuto una bambina, in quegli anni: Marietta - la piccola Maria. È un'ipotesi possibile, perfino probabile. Ma ciò che conta è che Tintoretto offrì a loro il ruolo- chiave del quadro: non al sacerdote né ai santi genitori né alle vergini ebree né ai committenti né a se stesso. Mediatrici fra gli spettatori e la storia sacra, testimoni e guide sono una donna qualunque e sua figlia. In pittura e nella vita, Tintoretto era un temerario, e un uomo libero. Maria sale, con grazia, verso il sacerdote barbuto che l'aspetta in cima alla scala. Il suo ingresso nel Tempio permette l'inizio della salvezza dell'umanità. Maria è unica, irripetibile. Infatti è sola, ritagliata contro un cielo di nuvole. Ma la donna la indica a esempio alla figlia - perché anche lei accetti il suo destino e lo compia. Così il quadro, al di là del significato teologico, che Tintoretto tradusse con esemplare fedeltà, finisce per diventare altro. Un'epifania malinconica del mestiere di genitore, e di maestro. Che può solo accompagnare con amore il figlio (la figlia) ai piedi della scala, in cima alla quale lo (la) attende il futuro. L'età adulta, il compimento di una vocazione, la felicità o il dolore. La scala è ripida, nessuno può aiutarci ad affrontarla. Tocca a noi trovare il coraggio di avviarci lassù - qualunque cosa ci attenda. Il maestro della luce
Dall'archivio di Repubblica, l'estratto di un articolo di Barbara Briganti sul legame tra il pittore inglese e il nostro Paese
Pietro Aretino, insigne scrittore e amico di pittori, ebbe rapporti difficili con Tintoretto e scrisse della "tristizia e follia" di Jacopo Robusti (1518-1594): nato a Venezia aveva preso nome dal padre tintore, nella cui bottega imparò a maneggiare tessuti preziosi, a valutare i pigmenti dei velluti, carezzando sotto la luce la tessitura marezzata delle sete. E in quella bottega cominciò a disegnare sulle pareti col carboncino. Il padre lo mandò da Tiziano e per qualche tempo ci rimase. A soli diciotto anni fu ammesso nella Fraglia dei pittori. Così la leggenda nasce e Tintoretto, passo dopo passo, diviene, alla morte di Tiziano nel 1567, il più celebre pittore di Venezia. Ne prese il posto con il piglio, il talento, l'anticonformismo plastico e illusionistico che ne segnarono l'opera: ebbe per committenti la chiesa, la Serenissima, il patriziato veneto, i Gonzaga, i Fugger, l'imperatore Rodolfo II e Filippo II di Spagna, ma fu anche devoto delle confraternite a cominciare da quella di San Rocco di cui fu membro, e per la quale dipinse uno spettacoloso ciclo di teleri.
(...) "La prestezza del fatto", cioè la velocità del suo pennello, stigmatizzata da Aretino, qui diventa qualità stilistica. In Susanna e i vecchioni (1555 c.) l'eco tizianesco rintocca, l'artificio dello specchio dilata lo spazio, mentre la luce carezza le morbide forme della bionda fanciulla immersa in un paesaggio incantato: la storia, tratta dall'Antico Testamento, assume sapore profano per l'insistita sensualità della scena disseminata di mirabili dettagli in primo piano: altro che "prestezza del fatto". Un tono felicemente favolistico ha la Creazione degli animali (15503). Assai più numerose le storie della vita di Cristo: Jacopo, concluso il Concilio di Trento, riuscì a mediare nel suo programma iconografico tra Riforma e Controriforma, fu accorto e non incappò nell'Inquisizione, che non risparmiò invece colleghi come Paolo Veronese. In San Giorgio e il drago (1553-5) il paesaggio assume un rilievo particolare, così in Santa Maria egiziaca e Santa Maria leggente (1582-83), tele verticali. Jacopo compone avvalendosi di maquette da scena teatrale, con le figure modellate in cera o creta. In studio si serve di modelli maschili e femminili e li mette in posa, poi li veste perché assumano le forme desiderate che gli consentano d' approdare al suo "realismo" plastico. A volte viene di pensare quanto Delacroix abbia attinto a lui e Jean-Paul Sartre, la cui monografia sul nostro è stata edita da Marinotti, l'aveva intuito. L'influenza che Jacopo Sansovino scultore e architetto eserciterà sulle sue composizioni, è evidente nel Trafugamento del corpo di San Marco (1562-6) in cui la scena architettonica ha una valenza essenziale, e contiene il gruppo che regge il corpo inanimato del santo, ma vigoroso nelle membra michelangiolesche. A Sansovino rese omaggio nel ritratto (1565) che qui si vede. Altre volte attinge liberamente e senza inibizioni alle incisioni del trattato di Serlio, testo che faceva parte della sua biblioteca. L'Ultima cena proveniente dalla chiesa di San Polo (15745) restaurata, e la successiva di un decennio, di San Trovaso, sono un momento altamente significativo della mostra, per la straordinaria dinamicità delle composizioni e per il diretto confronto. È assente, hélas, quella di San Giorgio Maggiore: così come bello sarebbe stato avere accanto all'Annunciazione (1558) di Tiziano, così composta, quella di Tintoretto così drammatica, in cui l'angelo irrompe con una schiera di angeli su Maria ed essa ne è spaventata. Tintoretto dipinse direttamente sulla tela, di qui molti pentimenti, e usa un'imprimitura scura che diviene parte della cromia della tele. Fu sommo ritrattista: malgrado il grande veggente Roberto Longhi lo sbeffeggi - anche Omero sonnecchia - i suoi autoritratti da giovane (1547) e da vecchio (1587), quello a figura intera del Venier, quelli di tre quarti di numerosi membri del patriziato veneto lo confermano. A chi gli chiedeva quali fossero i più bei colori disse: "Il bianco e il nero, perché l'uno dava forza alle figure profondando le ombre, l'altro il rilievo" (Ridolfi). Un risposta alla Malevic. |
L'Opera n. 52
L'Autore
SusaSnne valadon
Jacopo Tintoretto
BiografiaFiglio di un tintore di panni da cui deriva il soprannome, Jacopo Robusti trascorre l’intera sua esistenza nella città di Venezia, eccezion fatta per un viaggio a Roma – avvenuto presumibilmente nel 1545 - e una visita a Mantova nel 1580. Della sua vita si sa davvero poco. Persino la determinazione dell’anno di nascita non è stata immediata: bruciato l’atto di battesimo nel rogo dell’Archivio di San Polo, è il necrologio custodito a San Marziale che ha consentito di ascriverla all’anno 1519, visto che in esso si fa riferimento alla morte di “Jacopo Robusti detto Tintoretto”, avvenuta il “31 maggio 1594” dopo “giorni quindese de fievre” all’età “de anni settantacinque”. Le fonti parlano anche di un breve alunnato presso Tiziano, che lo avrebbe però ben presto cacciato dalla sua scuola, probabilmente non per gelosia, come si suole ripetere, quanto per divergenza artistica e caratteriale, dato lo spirito ribelle del giovane allievo, che un amico spiritosamente definisce “granelo de pévere” (‘granello di pepe’). Le sue prime opere pubbliche sono databili alla fine del quarto decennio del Cinquecento: del 1547 è la “Cena di San Marcuòla”, di matrice tizianesca nelle scelte cromatiche, e del 1548 la “Liberazione dello schiavo”, dipinto realizzato per la Scuola Grande di San Marco – una confraternita di religiosi e laici che svolgeva mansioni assistenziali e ospedaliere -, con il quale Tintoretto si impone all’attenzione generale, come si desume da una lettera di Pietro Aretino che lo elogia. Una quindicina di anni dopo, su commissione della medesima Scuola Grande (1562), Tintoretto dipinge altri teleri raffiguranti i miracoli di San Marco, fra i quali spicca “Il ritrovamento del corpo”, fulgido episodio concepito all’interno di un ambizioso programma iconografico comprendente le “Storie della Passione”, dell’“Antico” e del “Nuovo Testamento”, le “Storie dell’infanzia della Vergine e di Cristo”. Nel “Serpente di bronzo”, collocato nella sala grande della Scuola, la fusione di naturale e sovrannaturale si esplica in una mirabile efficacia rappresentativa. Nel maggio 1564 i consiglieri della Scuola Grande di San Rocco decidono di far decorare a proprie spese il soffitto dell’“Albergo” – la sala delle riunioni della “giunta” -, nella nuova sede costruita dietro l’abside della Chiesa di Santa Maria Gloriosa dei Frari. Tintoretto, invitato a partecipare al concorso, presenta un modello per una tela rappresentante “La gloria di San Rocco”: inizia così una collaborazione, destinata a durare un ventennio (si concluderà soltanto nel 1587), che farà sì che le sale della Scuola di San Rocco si riempiano di opere dell’artista, fino a costituire un immenso poema figurato, la cui importanza è stata talvolta paragonata a quella della Cappella Brancacci di Firenze o della Cappella Sistina di Roma. Il tema trattato sulle pareti dell’Albergo è la “Passione”. Le scene con “Cristo davanti a Pilato”, la “Salita al Calvario” e la Crocifissione rivelano uno stile ormai maturo e una linea figurativa che risente di una spiccata teatralità nell’illustrazione narrativa e di una notevole sensibilità per i valori spaziali e dinamici. Fra il 1575 e il 1581 Tintoretto dipinge, nella Sala Grande al primo piano della Scuola di San Rocco, accanto all’Albergo, prima le tele del soffitto con temi biblici, quindi quelle delle pareti con temi evangelici: rimarchevole, per originalità luministica e cromatica, l’“Adorazione dei pastori”. Fra il 1583 e il 1587 viene completato il grande ciclo di San Rocco, con la realizzazione delle tele della Sala Inferiore, che annoverano diverse scene della “Vita della Vergine” e dell’“Infanzia di Cristo”, “Santa Maria Maddalena leggente” e “Santa Maria Egizìaca in meditazione”. Mentre attende alle tele della Scuola di San Rocco, Tintoretto dipinge anche per i privati, per le chiese, per il governo: fra le sue ultime fatiche, la decorazione di una parete della Sala del Maggior Consiglio in Palazzo Ducale, con la raffigurazione del “Paradiso”, immensa tela affidata per lo più ai suoi collaboratori, che rivela altresì il notevole sforzo ideativo da lui profuso. Negli ultimi dipinti, realizzati fra il 1592 e il 1594 per il presbiterio di San Giorgio Maggiore (“Raccolta della manna”, “Ultima Cena”, “Deposizione di Cristo nel Sepolcro”), la tensione drammatica tipica delle sue composizioni raggiunge accenti talora accesamente visionari, talora di più intima concentrazione spirituale.
Le opere
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S.N.: "Mi è tornata in mano la pagina con la bambina di Tintoretto di fronte alla scala della vita e sono contenta di aver ritrovato tutte le altre opere per poterle rivedere e leggere il commento di Melania Mazzucco. Grazie !