"La morte di Procri" di Piero di Cosimo
Bellezza e fragilità secondo Piero di Cosimo il pittore dimenticato che amava gli animali C’è una giovane donna distesa sull’erba. Il manto rosso che indossava si e disfatto lasciando scoperti corpo e seno: Il sangue stilla ancora dalla ferita alla gola, e dai graffi sul polso sinistro e sulla mano destra. Si è difesa. Ma da chi? Non si vedono assalitori, né cacciatori. Sta morendo, forse è appena morta: il suo viso ha il colore latteo del cielo. C’è un fauno dalle zampe caprine e le orecchie d’asino, accanto a lei: le scuote delicatamente la spalla, come volesse svegliarla. La fissa, contrito, innamorato e colpevole. C’è un cane fulvo, dall’altra parte. La veglia, con l’ostinata fedeltà dei cani. L’inutilità della carezza del fauno e dell’attesa dei cane trasmettono a chi guarda un dolore non meno intenso perché sommesso. Dietro il corpo di lei, come ripetendone le curve, la costa digrada fino alla riva dell’acqua: un paesaggio idilliaco dove volano un pellicano e degli aironi, simbolo di sacrificio e di innocenza, e giocano altri tre cani. Strani fiori che non so riconoscere sbocciano sul prato e sui cespugli. Il contrasto fra colori squillanti, la miniaturistica attenzione ai dettagli e la posizione delle figure accentua il senso cli perdita e di malinconia. Di rimpianto, commozione e pietà per la giovane donna morta. Ma stranamente, anche per il fauno e il cane che l’a- spetta invano. Tutto ciò è stato dipinto a olio su avola di legno di pioppo, fra il 1495 e il 1500, a Firenze. Dici Firenze in quegli anni e pensi al Botticelli, Fillppino Lippi, o Leonardo da Vinci, sulla via del ritorno dopo la caduta di Ludovico il Moro, o addirittura a Michelangelo, appena partito dopo aver già meravigliato tutti. Invece il pittore di questo capolavoro non è altrettanto conosciuto — forse perché delle sue appena 56 opere solo 13 sono ancora in Italia. Si chiamava Piero dì Cosimo Ubaldini, abitava vicino Santa Maria Nòvella. Era stimato, ma anche criticato per il carattere, la solitudine, la stravaganza. Era un tipo “fantastico”. Per imporsi, un pittore-doveva lavorare per i Medici, per i signori o per il papa, meglio se in luoghi pubblici, dove le sue opere fossero viste, discusse, imitate. Lui invece lavorò per il papa solo quando era apprendista nella bottega di Cosimo. Rosselli, e per il resto lavorò per le confraternite della sua città, per mercanti di lana, banchieri e raffinatissimi gentiluomini che gli chiedevano spalliere è cassoni destinati a decorare le loro camere da letto. Un altro pittore li avrebbe dipinti in fretta, e per far soldi, o li avrebbe delegati ai suoi assistenti, e si sarebbe concentrato sulle pale d’altre o i ritratti dei papi. Non Piero di Cosimo. A quelle spalliere, destinate a sparire nelle stanze segrete dei palazzi, viste solo dal padroni di casa e dai loro amici, dedicò le invenzioni più originali e tutto il suo singolare talento. Un pittore che fa questa scelta; a Firenze, mentre il sinistro frate Savonarola instaura la teocrazia, tuona contro il vizio, il lusso, i libri profani, e brucia in piazza sui roghi delle vanità i casoni, gli specchi, le carte da gioco, i ritratti immodesti e quadri come questo — a me sembra degno cli qualcosa di più del rispetto ironico che gli riservarono i contemporanei e i posteri, i quali gli riconobbero il merito di aver formato i migliori artisti della generazione successiva (Andrea del Sarto, Jacopo Pontormo). Ma trovavano troppo eccentrici i suoi soggetti e i suoi modi: ha dovuto accontentarsi dell’ammirazione dei romantici, dei surrealisti e di noi nati secoli dopo. Dunque questa incantevole opera era una favola (cioè una scena mitologica) destinata a una camera da letto. Ad ammonire o educare gli sposi, forse. Ma qual era il suo messaggio? Che cosa è accaduto, e chi sono la bella e le bestie? Non lo sappiamo. L’immagine conserva il suo ambiguo mistero. La tradizione riconosce nella fanciulla Procri, protagonista delle Metamorfosi di Ovidio, e di una favola di Niccolò da Correggio recitata per le nozze di una Este (la sua tragica storia d’amore in seguito piacque a Shakespeare). La vicenda è complessa, e mi perdonerete se la riassumo. Innamorata, ricambiata, di Cefalo, Procri è vittima della gelosia del compagno e della propria. I due si lasciano, e Procri, sobillata da un fauno che le insinua il sospetto di un tradimento, si ritira nella foresta, in compagnia del suo cane Lelape, finché Cefalo, eccellente cacciatore, scambiandola per selvaggina, la uccide. Piero di Cosimo però manipola la fonte, altera la cronologia, elimina Cefalo: insomma reinventa la storia, e la trasforma in una elegiaca meditazione sulla fragilità della vita. Degli uomini, dei fauni, e degli animali — tutti dipinti con la stessa democratica attenzione e la stessa cura. Per capire quanto era rivoluzionario Piero di Cosimo, bisogna ricordare che i suoi contemporanei ritenevano i fauni dei grotteschi mostri di natura, dal sesso priapico perennemente rizzato, e i cani esseri privi di anima razionale, come tutti gli animali (e anche gli Indiani, appena scoperti da Colombo). Per lui, invece, uomini, mostri e cani sono segnati dallo stesso dolore di vivere. Osservava con religioso rispetto la natura, le nuvole — perfino lo sputo di un malato sul muro non gli suscitava disgusto, ma lo ispirava. Vasari influenzò il destino dell’arte di Piero di Cosimo dedicandogli una biografia ricca di aneddoti raccolti fra i suoi allievi. Indugia sulla “bestialità” del pittore, che aveva disegnato un intero libro di animali, amava la natura selvaggia e disprezzava la compagnia degli uomini. Apprezza il pittore, deride la persona. Ma è possibile distinguere l’uomo e l’artista? Nel Quattrocento credevano di no: ognuno dipinge se stesso. Io non ho risposta. Ma il pittore che ha dipinto il cane di Prodri non era un uomo “bestiale”: era un uomo. |
L'opera n. 8
"Sta morendo, forse è appena morta: il suo viso ha il colore latteo del cielo. C’è un fauno dalle zampe caprine e le orecchie d’asino, accanto a lei: le scuote delicatamente la spalla, come volesse svegliarla. La fissa - contrito, innamorato e colpevole. C’è un cane fulvo, dall’altra parte. La veglia, con l’ostinata fedeltà dei cani. L’inutilità della carezza del fauno e dell’attesa del cane trasmettono a chi guarda un dolore non meno intenso perché sommesso". (Melania Mazzucco)
IL MITO
La storia di Cefalo e Procri è narrata da Ovidio nelle Metamorfosi (VII, 752-765). Secondo la mitologia la fedeltà reciproca della coppia fu messa più volte alla prova da dei invidiosi. Mentre Cefalo era a caccia, armato di un dardo infallibile e di un segugio che riusciva sempre a catturare le prede (Lelapo), già doni di Artemide, Procri si nascose per controllare che l'uomo non la tradisse con Eos. Scambiatala però per un animale che si muoveva nei cespugli fu uccisa dal suo stesso marito. Aurora, innamorata, rapì Cefalo; ma questi, innamorato e fedele a Procri, sua moglie, rifiutò l'amore della dea che, offesa, lo liberò mettendolo in guardia sulla presunta infedeltà di Procri. Tornato dall'amata, Cefalo decise di metterla alla prova e, travestitosi, tentò di sedurla offrendole dei ricchi doni; riuscito ad incrinare l'integrità della giovane, Cefalo le mostrò la sua vera identità. Procri, in preda alla vergogna ed adirata per l'inganno subito, fuggì sulle montagne ed entrò nel seguito della casta dea Diana. Dopo qualche tempo i due, forti del loro amore, si rinconciliarono e Procrì offrì all'amato due dono ricevuti da Diana, una lancia e un cane, entrambi dotati di poteri magici. Purtroppo, per un tragico equivoco, anche Procri si ingelosì del marito: qualcuno, infatti, le aveva riferito che durante le battute di caccia era solito invocare una ninfa, Aura, che in realtà non era altro che la brezza rinfrescante. Procri decise dunque di seguire di nascosto Cefalo, il quale, sentendo dei rumori e pensando si trattasse di una bestia, scagliò la sua lancia invincibile proprio verso il nascondiglio dell'amata, colpendola a morte. Solo pochi istanti prima della morte dell'amata Cefalo comprenderà l'equivoco all'origine della tragedia.
Ovidio non dice che Cefalo fosse un satiro, come riportato nel dipinto, ma tale
iconografia del mito si trova già nella rappresentazione teatrale Fabula di
cephalo di Niccolò da Correggio del 1486, composta per Ercole d'Este
e rappresentata alla corte di Ferrara nel 1487. Incongruenti sono anche le ferite e la mancanza
dell'arma, per cui l'identificazione tradizionale è tutt'altro che certa. Il
formato orizzontale della tavola è occupato dal corpo femminile disteso e colto
dal sonno mortale, con ferite alla gola, al polso e alla mano. Ai lati si
bilanciano le due figure scure del satiro e del cane da caccia, mentre dietro
di essi si estende un paesaggio lacustre reso azzurrino dalla foschia e
popolato da animali (altri cani, un pellicano, alcuni aironi) e barche che
ruotano attorno a un porto appena visibile. Forte è il senso della natura e
l'attenzione con cui la veduta è curata, ispirandosi a modelli fiamminghi. La
bellezza ideale della figura distesa, il suo abbigliamento all'antica e la
precisione anatomica del disegno rimandano al filone fiorentino di cui fece
parte anche Botticelli.
Non a caso nel museo l'opera è esposta simmetricamente al Venere e
Marte di analogo formato, proprio di Botticelli.
Sul retro della tavola si trova un disegno architettonico, la cornice di un pilastro. In controluce, soprattutto nel corpo disteso di Procri, si vedono tracce del disegno sottostante, mentre nel cielo l'artista sfumò i colori con i polpastrelli, lasciando numerose impronte digitali.
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