"Il Cristo acheropìta" di Roma
L’ACHEROPITA, il dipinto a cera della Cappella del Sancta Sanctorum a Roma rappresenta il volto di Cristo. L’opera è antichissima, databile tra il V e il VII secolo. Secondo la tradizione cristiana orientale, è un’icona non dipinta da mano umana, ma da Dio stesso.
Acheropita, dal greco bizantino: non fatto da mano umana e quindi realizzato dal divino. Le immagini che secondo la tradizione religiosa hanno un'origine miracolosa sono da considerarsi reliquie. Spesso ne troviamo traccia in testi antichi ma ignoriamo dove oggi si trovino, come nel caso del Velo della Veronica. Anche la Sacra Sindone è una immagine acheropita, ma non in senso classico: gli autoritratti divini rappresentano sempre un uomo in vita. |
L'opera n. 4
"Ha gli occhi enormi e vicini, spalancati, assenti eppure penetranti, fissi nella contemplazione di qualcosa al di là del visibile e della materia. Eppure è impossibile sottrarsi alla sensazione che quel dipinto racchiuso in un sarcofago d’argento della misura di un uomo non sia un pezzo di legno inerte. Non siamo noi che guardiamo l’opera, ma è l’opera che guarda noi. Ci segue con lo sguardo, ci giudica. Ci legge dentro". (Melania Mazzucco) |
Seminare parole sulla carta.
Erigere un muro di caratteri, e poi inabissarsi nelle proprie pagine come in un
labirinto. E il sogno di molti scrittori. Può sembrare un modo strano per cominciare
un discorso su Jackson Pollock, il mito dell’avanguardia americana degli anni
‘50, il rude cowboy del Wyoming, paragonato a Marlon Brando e James Dean: ma è
esattamente questa la sensazione, insieme riposante e angosciante, che mi comunicano
le sue opere. Come fossero dei muri che l’artista ha eretto intorno a sé, o dei
mari in cui si è tuffato per annegarvi. Infatti se gli scrittori possono
realizzare la fuga nell’opera solo in metafora, o finendo in manicomio, un
pittore può farlo davvero. E Pollock ci è entrato dentro col corpo, con le
mani, e lì è rimasto — cristallizzato, salvo, come un insetto in una goccia
d’ambra.
Quella figura misteriosa sepolta sotto le gocce di colore di Pollock
La tavola in realtà è un’icona antichissima, che rappresenta il
Santissimo Salvatore, cioè Gesù Cristo Pantocratore. Molte altre icone
rappresentano lo stesso soggetto, e nello stesso modo, perché sono immagini del
sacro, dunque identiche a se stesse, e non conoscono il tempo. Ma l’icona del
Sancta Sanctorum è diversa. Non perché sia miracolosa, accechi i superbi,
esaudisca desideri o guarisca malattie, benché pare faccia anche questo. Né
perché è il talismano protettore di Roma, senza il
quale la città stessa perirebbe.
Le cronache raccontano che nel 753 al papa Stefano Il bastò mostrarla perché il re longobardo Astolfo togliesse l’assedio. Così per secoli i papi la ostentarono in una processione notturna che attraversava tutta la città. Il popolo si accodava in massa, invocando pietà e protezione contro la peste, la morte, la guerra — il male, insomma. L’icona del Santissimo Salvatore in qualche modo funzionava. Neanche i lanzichenecchi luterani del 1527 riuscirono a rubarla a darle fuoco. Si salvò da terremoti, invasioni, incendi. Però si consumò, quasi si estinse. I balsami con cui i piedi del Santissimo Salvatore venivano unti durante le ostensioni corrosero le membra; poi sparirono l’abito e il trono su cui sedeva il Pantocratore. Alla fine del 1100 l’immagine originale non si vedeva quasi più, e fu ridipinta. Con fedeltà. Però il corpo era svanito, e non fu ripristinato. L’assenza fu coperta con un vestito d’argento, tempestato di gioielli e pietre preziose, un sudano da cui il volto di Cristo emerge perentorio e spettrale, con l’allucinata intensità di una visione.
Si è cercato di stabilire dove è stata dipinta l’icona. A Bisanzio, secondo alcuni studiosi: sarebbe stata strappata dal palazzo imperiale al tempo dell’iconoclastìa. Altri sostengono che essendo la tavola di noce, e non di cedro o altro legno orientale, deve essere latina, italiana, romana. In realtà, come sempre quando un’opera appare all’improvviso, il Santissimo Salvatore è un oggetto misterioso, come un meteorite.
Ma ha un autore: Dio stesso. Ciò significa l’enigmatica parola di origine greca, Acheropìta (non fatta con la mano), che figura in luogo della paternità dell’opera. Dunque è Dio il pittore di questo ritratto. Insomma, è un autoritratto.
Poiché non è un calco del volto di Gesù (come il Mandilion di Edessa, o il sudarioo della Veronica), sarebbe il primo autoritratto della storia dell’arte. I pittori italiani e stranieri lo conoscevano. Venivano tutti a Roma. Si sarebbero ricordati della frontalità ieratica e degli occhi immensi di questo uomo-Dio.
Oggi è difficile crederci. Le ricerche scientifiche hanno dimostrato che la pittura è fragile, fatta con normalissimi colori, e databile, come ogni manufatto umano. Al V secolo, non oltre l’inizio del VII. Le ricerche artistiche hanno analizzato la forma e la tipologia dell’immagine — a sua volta diventata modello per altre, riproducendosi all’infinito. Più che mostrare come Dio vede se stesso, l’icona acheropìta ci dice come gli uomini dei secoli bui vedevano Cristo: sovrano onnipotente incoronato da un’aureola d’oro, ma anche dolorosamente umano. Forse non imita l’aspetto del Cristo storico, ma il senso della sua presenza sulla terra. Nel congiungersi alla barba, i baffi gli conferiscono un’espressione non trionfante, anzi immensamente triste. Ha gli occhi enormi e vicini, spalancati, assenti eppure penetranti, fissi nella contemplazione di qualcosa al di là del visibile e della materia. Eppure è impossibile sottrarsi alla sensazione che quel dipinto racchiuso in un sarcofago d’argento della misura di un uomo non sia un pezzo di legno inerte. Non siamo noi che guardiamo l’opera, ma è l’opera che guarda noi. Ci segue con lo sguardo, ci giudica. Ci legge dentro. Ed evidentemente è una sensazione diffusa, se un papa del Medioevo preferì coprirla con un velo di seta, perché guardandola le persone venivano colte da tremori, terrore, vertigine come di fronte all’infinito, o a un abisso.
Ogni volta che torno a visitare l’Acheropìta, mi chiedo se il Santissimo Salvatore mi guarda perché è Dio, o perché è una magnifica opera d’arte. E mi ripeto che se un’opera d’arte non diventa presenza— specchio di un pensiero, indelebile emozione, scintilla di un significato del mondo — non è niente.
Le cronache raccontano che nel 753 al papa Stefano Il bastò mostrarla perché il re longobardo Astolfo togliesse l’assedio. Così per secoli i papi la ostentarono in una processione notturna che attraversava tutta la città. Il popolo si accodava in massa, invocando pietà e protezione contro la peste, la morte, la guerra — il male, insomma. L’icona del Santissimo Salvatore in qualche modo funzionava. Neanche i lanzichenecchi luterani del 1527 riuscirono a rubarla a darle fuoco. Si salvò da terremoti, invasioni, incendi. Però si consumò, quasi si estinse. I balsami con cui i piedi del Santissimo Salvatore venivano unti durante le ostensioni corrosero le membra; poi sparirono l’abito e il trono su cui sedeva il Pantocratore. Alla fine del 1100 l’immagine originale non si vedeva quasi più, e fu ridipinta. Con fedeltà. Però il corpo era svanito, e non fu ripristinato. L’assenza fu coperta con un vestito d’argento, tempestato di gioielli e pietre preziose, un sudano da cui il volto di Cristo emerge perentorio e spettrale, con l’allucinata intensità di una visione.
Si è cercato di stabilire dove è stata dipinta l’icona. A Bisanzio, secondo alcuni studiosi: sarebbe stata strappata dal palazzo imperiale al tempo dell’iconoclastìa. Altri sostengono che essendo la tavola di noce, e non di cedro o altro legno orientale, deve essere latina, italiana, romana. In realtà, come sempre quando un’opera appare all’improvviso, il Santissimo Salvatore è un oggetto misterioso, come un meteorite.
Ma ha un autore: Dio stesso. Ciò significa l’enigmatica parola di origine greca, Acheropìta (non fatta con la mano), che figura in luogo della paternità dell’opera. Dunque è Dio il pittore di questo ritratto. Insomma, è un autoritratto.
Poiché non è un calco del volto di Gesù (come il Mandilion di Edessa, o il sudarioo della Veronica), sarebbe il primo autoritratto della storia dell’arte. I pittori italiani e stranieri lo conoscevano. Venivano tutti a Roma. Si sarebbero ricordati della frontalità ieratica e degli occhi immensi di questo uomo-Dio.
Oggi è difficile crederci. Le ricerche scientifiche hanno dimostrato che la pittura è fragile, fatta con normalissimi colori, e databile, come ogni manufatto umano. Al V secolo, non oltre l’inizio del VII. Le ricerche artistiche hanno analizzato la forma e la tipologia dell’immagine — a sua volta diventata modello per altre, riproducendosi all’infinito. Più che mostrare come Dio vede se stesso, l’icona acheropìta ci dice come gli uomini dei secoli bui vedevano Cristo: sovrano onnipotente incoronato da un’aureola d’oro, ma anche dolorosamente umano. Forse non imita l’aspetto del Cristo storico, ma il senso della sua presenza sulla terra. Nel congiungersi alla barba, i baffi gli conferiscono un’espressione non trionfante, anzi immensamente triste. Ha gli occhi enormi e vicini, spalancati, assenti eppure penetranti, fissi nella contemplazione di qualcosa al di là del visibile e della materia. Eppure è impossibile sottrarsi alla sensazione che quel dipinto racchiuso in un sarcofago d’argento della misura di un uomo non sia un pezzo di legno inerte. Non siamo noi che guardiamo l’opera, ma è l’opera che guarda noi. Ci segue con lo sguardo, ci giudica. Ci legge dentro. Ed evidentemente è una sensazione diffusa, se un papa del Medioevo preferì coprirla con un velo di seta, perché guardandola le persone venivano colte da tremori, terrore, vertigine come di fronte all’infinito, o a un abisso.
Ogni volta che torno a visitare l’Acheropìta, mi chiedo se il Santissimo Salvatore mi guarda perché è Dio, o perché è una magnifica opera d’arte. E mi ripeto che se un’opera d’arte non diventa presenza— specchio di un pensiero, indelebile emozione, scintilla di un significato del mondo — non è niente.
Le immagini venerate
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Informativa ai sensi della Legge 62/2001.
Questo sito viene aggiornato senza fissa periodicità e soltanto quanto necessita segnalare notizie ai visitatori e pertanto non può essere coinsiderato un "periodico" e nemmeno un "prodotto editoriale" in quanto gratuito e non pubblicato in forma cartacea.
© StudioErreSodano di Armando Sodano
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