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In teoria un'ellisse perfetta, ma come realizzarla?

18/8/2020

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Non abbiamo tracce di uno schema geometrico definitivo, o di regole codificate, per la costruzione degli anfiteatri, cosa che ci lascia pensare che gli architetti, che operavano nella romanità tardo-repubblicana e imperiale, seguissero uno schema che di volta in volta veniva adattato secondo l'evenienza. Uno schema provvisorio quindi, necessario per determinare l'esatta collocazione nel sito di costruzione, i costi della costruzione preventivando tempi, materiali, tecniche e manodopera da impiegare e, ovviamente, le dimensione in prospettiva del numero di spettatori che avrebbe dovuto accogliere durante gli spettacoli gladiatori e circensi. Uno schema di base abbastanza semplice, composto dalla combinazione di triangoli rettangoli, dimensionati e proporzionati ovviamente in funzione della forma, ovale o ellisse, che avrebbe dovuto assumere l'edificio. Così anche nel caso del nostro anfiteatro, che è arrivato fino a noi in uno stato di parziale conservazione, ma sufficiente per consentire di calcolarne le dimensioni in modo abbastanza attendibile, di cui lo schema semplificato è riconducibile, come è facilmente dimostrabile disegnando e misurando la sua arena, alla costruzione di due triangoli equilateri i cui lati sono pari alle dimensioni del suo asse minore (come si sa ogni triangolo equilatero è divisibile in due triangoli rettangoli proiettando qualsiasi vertice sulla propria base contrapposta). Cosa non certo casuale, ma voluta da chi cercava di raggiungere, non la grandiosità per dimensioni o per materiali pregiati impiegati, la bellezza della forma, la più equilibrata ed armonica possibile, inserita in un contesto geografico spettacolare, visto lo splendore della natura del paesaggio che lo avrebbe accolto e circondato. Una forma che comunque gli avrebbe dovuto consentire di raggiungere dimensioni tali da contenere 12000 spettatori e più, essendo quella di Abella una "terra di mezzo", prossima alla popolosa Campania Felix, di cui i romani andavano così fieri da farne la seconda patria, e abbastanza vicina a quelle popolazioni interne, fiere e bellicose, che amavano spesso mostrare le loro capacità guerriere esibendosi in cruenti giochi di combattimenti, da cui non poche volte si era dovuta difendere prima di passare sotto il protettorato di Roma. Eppure c'è chi ha scritto e parlato di un numero di capienza di pubblico molto inferiore, riportando persino misure errate della struttura, lasciando intendere che si trattasse di un anfiteatro minore e di scarsa rilevanza. Sbagliando clamorosamente, secondo me, per sottostima. Ce lo dimostrano i suoi numeri al confronto con quelli del più prossimo ad esso per età, forma e vicinanza geografica, l'assai più noto anfiteatro di Pompei, conservato quasi intatto sotto le ceneri del Vesuvio, di cui, proprio per questa ragione, se ne è potuta determinare quasi con certezza la capienza.
​Se per l'anfiteatro pompeiano, che presenta queste dimensioni: lunghezza degli assi 135 m e 104 m, superficie complessiva 10.700 mq, superficie arena 1.950 mq, superficie cavea 8.750 mq, si è potuto contare un numero di 20.000 spettatori, di conseguenza l'anfiteatro avellano, che ha queste altre dimensioni: lunghezza degli assi: 112 m e 83 m, superficie complessiva 7.250 mq, superficie dell'arena 1.750 mq, superficie cavea 5.500 mq, in proporzione, e arrotondando per difetto, avrebbe avuto, una volta completato, una capienza di 12000 spettatori.​

Era già stato tutto stabilito, dimensionamento e capienza, né si poteva fare diversamente, visto che il magistrato aveva messo a disposizione quell'area e le  risorse economiche necessarie per poterlo costruire, nel tempi occorrenti per quel tipo di costruzione così imponente e impegnativa, e comunque il prima possibile per potersi glorificare e offrire spettacoli gladiatori e circensi che così tanto appassionavano da coinvolgere migliaia e migliaia di persone, utile anche per guadagnarsene i favori. Il progetto non era scritto, ma c'era tutto nella sua testa, visto che più volte ne aveva mostrato lo schema disegnandolo con un lungo bastone appuntito sulla sabbia finissima stesa sottile e compatta nella parte più luminosa dell'atrio della domus del  magistrato romano.
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​L'architetto e il suo anfiteatro. Una notte "abellana" di tanto tempo fa.
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L'architetto dell'anfiteatro conosceva molto bene la geometria, la matematica, la topografica, la logistica, la contabilità, e certamente era un esperto nella tecnica del disegno (così racconterà, dopo qualche anno, Vitruvio nel descrivere la figura del bravo architetto nel suo De Architectura), tanto da saper rappresentare l'opera da realizzare non soltanto con piante e prospetti, ma anche attraverso "prospettive" colorate, per dare al committente "l’impressione" dell’opera finita. Peccato che di questi lavori preparatori ci sia arrivato ben poco, quasi nulla, tranne qualche testimonianza in ritagli di dipinti murali e mosaici, o qualche descrizione scritta in rari testi. Lo stesso Vitruvio, il maggior documentarista sull'architettura antica, non è abbastanza esaustivo sull'argomento. Così dell'anfiteatro di Abella, e di tutti gli altri, nessuno, né ieri e né oggi, ha avuto il privilegio di poterne osservare gli schemi, le formule, le immagini disegnate. Un privilegio che anche allora era concesso a pochi, essendo lui, l'architetto, un uomo di cultura e di ingegno, ricercato e benestante abbastanza per non doverlo fare per necessità, e forse semplicemente per riscattare il suo stato di uomo, "libero" di salire la scala sociale attraverso la grandezza e bellezza della sua arte. Così si era presentato, richiesto e ammirato, preceduto dalla sua fama, qui in Abella, crocevia di popoli, terra di mezzo, popolosa e ricca abbastanza da poterci costruire un'opera maestosa che lo avrebbe appagato e glorificato più di ogni altra cosa. Ed era anche quello che desiderava colui che lo aveva chiamato, uomo potente e ricco, cittadino e fiduciario di Roma, desideroso e ambizioso di arrivare sempre più in alto nella scala del potere. Ma i tempi erano stretti e bisognava fare in fretta. Nella poco lontana Capua il maestoso anfiteatro era già da un pezzo completato e la fama dei giochi, con i suoi possenti gladiatori, aveva già contagiato Roma. Nella più vicina Pompei le basi del suo anfiteatro erano già complete, mentre il podio già si ergeva alto a delimitare l'arena. Persino Nola, la rivale di sempre, tanto vicina e tanto odiata, ne aveva annunciato la sua costruzione. Perciò non c'era più tempo da perdere, bisognava procedere quanto prima e con celerità. Così lui ci stava rimuginando su: mica doveva per forza accettare quell'incarico? La tentazione a rinunciare già c'era stata prima, dopo le visite a quei due anfiteatri, e a quei pochi altri più lontani, che lo avevano tanto impressionato: c'era veramente tanto lavoro da fare per tirare su quelle strutture così imponenti. Imponenti, ma non nella bellezza, per lo meno quella bellezza alla quale lui, amante dell'estetica, profondo conoscitore di matematica e geometria, aspirava: eleganza, proporzioni e armonia delle forme, a partire dall'arena, fulcro di ogni cosa, dagli spettacolari combattimenti alle geometrie strutturali. Anche se la soluzione ce l'aveva per realizzare il suo anfiteatro in un sito di tanta bellezza naturale, i tempi erano comunque stretti per poterlo fare con quel processo lungo, fatto di traiettorie da tracciare confluenti in un unico tracciato dal quale si sarebbe innalzato il podio definendo un ovale perfetto. Ovale perfetto, non una linea semplicemente curvata fissando centri in più punti dell'asse, come aveva visto fare in quegli altri anfiteatri, ma l'ellisse quindi, l'unica geometria curva, a parte il cerchio (poco adatto agli scopi quali gli anfiteatri erano destinati) che gli avrebbe consentito di raggiungere un equilibrio formale in una struttura così grande e complessa. Ma lui sapeva anche, da matematico, disegnatore esperto e misuratore quale era, che per tracciarla sul campo era un lavoro lungo e complesso, che avrebbe sottratto buona parte del tempo rimasto. Rinunciare all'ellisse per anticipare i tempi e le consegne? Piuttosto rinuncio all'incarico! Pensava tra sé e sé. Ci pensava sin da quel giorno che aveva presentato il suo anfiteatro al ricco e potente committente, disegnandolo con tratti rapidi e precisi, tramite un lungo bastone di duro nocciolo selvatico appuntito in avanti, nella sabbia grigia e ferrosa, raccolta ai margini del fiume vicino, stesa umida, compatta e finissima, sul pavimento di pietre nella parte più luminosa dell'atrio della domus del nobile romano. E ci stava pensando anche per tutta quella notte, finché non gli apparve, nel primo sonno, dopo quello stato ansioso in cui era caduto, suo padre, suo primo maestro di vita e di studi, mentre gli veniva incontro tenendo in una mano due bastoncini diritti appuntiti, legati rispettivamente ai due estremi di una piccola corda sottile di intreccio di canapa, e nell'altra un terzo bastoncino anch'esso appuntito in un estremo. Così, quella visione, nel sonno, gli fece ricordare di quel gioco, che lo aveva tanto incuriosito e che il padre aveva utilizzato per insegnargli come in realtà era così semplice disegnare un ovale perfetto, cioè l'ellisse, senza perdersi in tanti cerchi e mille linee. Si svegliò di sobbalzo pensando a quel gioco e corse d'impeto a raccogliere un rametto liscio e dritto per tagliarlo in tre parti. Ne legò due alle estremità del laccio, che aveva sfilato da uno dei suoi sandali, e stendendolo, l'uno nella direzione opposta dell'altro, li appuntò così distanziati nel suolo umido, indurito dal freddo della notte. Poi ne estrasse uno per avvicinarlo all'altro di circa un quarto di quella distanza. Prese il terzo bastoncino, lo appoggiò al laccio tirandolo fino a stenderlo e facendolo scorrere lungo di esso, in modo da tenerlo sempre teso, da un'estremità dell'asse, sul quale erano allineati i due bastoncini fissi al suolo, fino ad arrivare all'altra. Fece lo stesso nel verso e sul piano opposto. Eccolo apparire l'ovale perfetto, l'ellisse, in un solco nerissimo dai bordi d'argento, illuminato dalla luna in quella fredda notte "abellana".
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Una cosa era il disegno dell'ellisse in piccola scala, utilizzando il metodo che gli aveva insegnato suo padre, un'altra cosa la sua costruzione in scala reale utilizzando quel sistema di costruzione empirico. 213 piedi di lunghezza e 110 di larghezza, erano misure considerevoli per un'area da perimetrare, intorno alla quale costruire l'anfiteatro che il Magistrato romano voleva regalare alla città di Abella, a seguito della suo nomina; sperando che arrivasse anche quella di Cavaliere per suo figlio, e altri successi personali nella scalata sociale e di potere, così da poterli festeggiare con sorprendenti e spettacolari eventi gladiatori che la stessa Roma ancora non conosceva. 
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lo scriba, l'archĭtectus, l'ideatore di uno tra i primi e più originali anfiteatri dell'antichità.

Farlo con i tradizionali strumenti  topografici per misurare distante e angoli (regolo, squadro, groma, compasso, livella), applicando le formule trigonometriche, che pure bene conosceva, era un procedimento lungo e laborioso, a maggior ragione se si trattava di realizzare quella curva perfetta alla quale aspirava. Farlo in modo pratico, ma preciso, come in quella notte tormentata, fredda e luminosa, con ancora negli occhi la presenza di suo padre apparso in sogno, era molto più complicato in dimensione reale. 
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Il problema non era trovare la corda, che comunque doveva avere una lunghezza di ben 213 piedi, ma come poterla manovrare agevolmente, una volta legate le sue estremità ai due picchetti indicanti i fuochi  sull'asse maggiore della futura arena, per determinare i punti nei quali conficcare i picchetti per la delimitazione e costruzione del muro intorno all'arena, dal quale sarebbe poi scaturita tutta la costruzione geometrica dell'anfiteatro. 
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Stava fissando ancora quel solco ellittico, con stretti nelle mani il laccio sottratto al suo sandalo e i tre bastoncini che aveva usato nel disegnare quella forma ancora ben marcata nel suolo, quando gli balenò l'idea che avrebbe potuto utilizzare un anello di ferro, nel quale far scorrere la lunga corda. Un anello agganciato a un altro anello, più grande e tale da contenere il picchetto di legno ben appuntito, a sua volta unito a un anello più piccolo legato a un'altra corda, da utilizzare per mettere in trazione quel sistema che avrebbe consentito di picchettare tutta l'arena in modo semplice, veloce ed efficace. Convinto, sicuro e fiducioso, si precipitò in cantiere per ordinare al fabbro di costruirgli quell'arnese fatto di tre semplici anelli. 
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Il sole si era appena levato, ma non c'era tempo da perdere. Aveva fretta il Magistrato di Abella, ancor di più fremeva lui, lo scriba, l'archĭtectus, l'ideatore di uno tra i primi e più originali anfiteatri dell'antichità.
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