La galleria sulla summa cavea non è soltanto una mia ipotesi e lo dimostra il chiostro seicentesco del convento francescano.
Le colonne del chiostro sono l'evidente esempio di ricollocazione e riuso di elementi frutto di spoliazione di un'opera importante di epoche antecedenti. Lo stile richiama l'ordine tuscanico, un ordine italico di origine etrusca risalente già al VI s.a.C., diffuso in fase successive nei territori del centro sud della penisola, e quindi conosciuto anche nell'antica Abella. Un ordine che ben si prestava ad essere utilizzato per opere con coperture in legno, quale appunto poteva essere, come lo era, quella della galleria che sormontava un anfiteatro, destinata ad accogliere il ceto più povero e le donne. Da quale edificio, quindi, potevano provenire quelle colonne monolitiche del chiostro del convento francescano di Avella se non da quell'anfiteatro che stava proprio lì a due passi? E lo stile tuscanico di queste colonne sta a dimostrare tutta l'importanza di uno tra i primi e più singolari di questa tipologia di edifici, per definizione romani perché di epoca romana, ma che io preferisco appunto chiamarlo campano o meglio "avellano", perché i romani sono partiti da qui, dalle nostre terre, per costruire poi, successivamente, i loro anfiteatri in tutto il mondo.
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Lo scriba, l'archĭtectus, l'ideatore di uno tra i primi e più originali anfiteatri dell'antichità.28/9/2020
Una cosa era il disegno dell'ellisse in piccola scala, utilizzando il metodo che gli aveva insegnato suo padre, un'altra cosa la sua costruzione in scala reale utilizzando quel sistema di costruzione empirico. 213 piedi di lunghezza e 110 di larghezza, erano misure considerevoli per un'area da perimetrare, intorno alla quale costruire l'anfiteatro che il Magistrato romano voleva regalare alla città di Abella, a seguito della suo nomina; sperando che arrivasse anche quella di Cavaliere per suo figlio, e altri successi personali nella scalata sociale e di potere, così da poterli festeggiare con sorprendenti e spettacolari eventi gladiatori che la stessa Roma ancora non conosceva.
Farlo con i tradizionali strumenti topografici per misurare distanze e angoli (regolo, squadro, groma, compasso, livella), applicando le formule trigonometriche, che pure bene conosceva, era un procedimento lungo e laborioso, a maggior ragione se si trattava di realizzare quella curva perfetta alla quale aspirava. Farlo in modo pratico, ma preciso, come in quella notte tormentata, fredda e luminosa, con ancora negli occhi la presenza di suo padre apparso in sogno, era molto più complicato in dimensione reale.
Il problema non era trovare la corda, che comunque doveva avere una lunghezza di ben 213 piedi, ma come poterla manovrare agevolmente, una volta legate le sue estremità ai due picchetti indicanti i fuochi sull'asse maggiore della futura arena, per determinare i punti nei quali conficcare i picchetti per la delimitazione e costruzione del muro intorno all'arena, dal quale sarebbe poi scaturita tutta la costruzione geometrica dell'anfiteatro.
Stava fissando ancora quel solco ellittico, con stretti nelle mani il laccio di cuoio sottratto al suo sandalo e i tre bastoncini che aveva usato nel disegnare quella forma ancora ben marcata nel suolo, quando gli balenò l'idea che avrebbe potuto utilizzare un anello di ferro, nel quale far scorrere la lunga corda. Un anello agganciato a un altro anello, più grande e tale da contenere il picchetto di legno ben appuntito, a sua volta unito a un anello più piccolo legato a un'altra corda, da utilizzare per mettere in trazione quel sistema che avrebbe consentito di picchettare tutta l'arena in modo semplice, veloce ed efficace. Convinto, sicuro e fiducioso, si precipitò in cantiere per ordinare al fabbro di costruirgli quell'arnese fatto di tre semplici anelli.
Il sole si era appena levato, ma non c'era tempo da perdere. Aveva fretta il Magistrato di Abella, ancor di più fremeva lui, lo scriba, l'archĭtectus, l'ideatore di uno tra i primi e più originali anfiteatri dell'antichità.
Il restauro dell'anfiteatro di Avella rientrava nel progetto per la realizzazione di un parco archeologico che valorizzasse la zona degli scavi, sfruttando la possibilità di utilizzare l’anfiteatro per spettacoli, principalmente estivi visto il clima, nella sua ampia arena.
Per il parco archeologico, il progetto ipotizzava la realizzazione di un tracciato viario pedonale ricalcando in parte quello della città romana, individuando così nell'area delle "insulae" da sottoporre a scavi archeologici. Questo tracciato viario doveva essere accompagnato da una alberatura alquanto atipica per la zona, quali pioppi, cipressini e cipressi, prevedendo anche la formazione di piccole aree di sosta ubicate agli incroci di queste vie pedonali. All'interno delle insule era prevista anche la possibilità di realizzare campetti da gioco e sport all'aperto. Per le parti da costruire, come una biglietteria e relativo deposito, era prevista la possibilità di sfruttare il dislivello del terreno esistente in maniera da collocarli in posizione parzialmente interrata per non disturbare il contesto. Per le restanti parti del perimetro a maggior pendenza, il dislivello sarebbe stato trattato con una scarpata a verde, permettendo una delimitazione verso il parcheggio e la prevista nuova strada comunale. Per quanto riguarda il restauro dell'anfiteatro si comprende, dalla pianta in figura ricavata da quella del progetto, come esso mirasse in primis al restauro conservativo delle strutture emergenti, in previsione anche di un suo utilizzo per spettacoli che richiamassero pubblico, ma non certo da grandi numeri, data l'importanza archeologica perciò l’interesse culturale del sito. Infatti, l'intervento si preoccupa principalmente di mettere in vista il complesso monumentale, evidenziandone strutture, forme geometriche e tutto l'insieme compositivo dello spazio che lo contiene, integrato in percorsi pedonali, verde e ruderi. Il fulcro resta, come sempre, l'arena che può accogliere lo spettacolo, con i suoi protagonisti, e parte di pubblico, mentre una restante parte può essere accolta sulle gradinate ricostruite, in ambi i lati, su una metà della media cavea, lasciando libera e a vista l'altra metà, tutto il podio e l'ima cavea, come libere e a vista sono le basi delle arcate dell'alta cavea. A queste gradinate il pubblico può accedervi comodamente attraverso percorsi esterni o dalla stessa cavea, tramite apposite rampe e gradini. È evidente come in questo progetto, redatto dagli architetti Siola e Rabitti per il Comune di Avella nel lontano 1986, il protagonista di ogni spettacolo sia, oltre agli artisti che vi si esibiscono, il monumento che diventa esso stesso contenuto dello spettacolo, mentre anche lo stesso pubblico è partecipe e messo ben in condizione di godere ampiamente dell'uno e dell'altro. Ma questo, oggi, lo possiamo soltanto raccontare, perché le cose sono andate un po’ diversamente, sperando in una "nuova primavera" per il nostro caro e amato Anfiteatro Avellano, visto anche l’ “entusiasmo” di cui è tanto circondato.
L'architetto dell'anfiteatro conosceva molto bene la geometria, la matematica, la topografica, la logistica, la contabilità, e certamente era un esperto nella tecnica del disegno (così racconterà, dopo qualche anno, Vitruvio nel descrivere la figura del bravo architetto nel suo De Architectura), tanto da saper rappresentare l'opera da realizzare non soltanto con piante e prospetti, ma anche attraverso "prospettive" colorate, per dare al committente "l’impressione" dell’opera finita.
Peccato che di questi lavori preparatori ci sia arrivato ben poco, quasi nulla, tranne qualche testimonianza in ritagli di dipinti murali e mosaici, o qualche descrizione scritta in rari testi. Lo stesso Vitruvio, il maggior documentarista sull'architettura antica, non è abbastanza esaustivo sull'argomento. Così dell'anfiteatro di Abella, e di tutti gli altri, nessuno, né ieri e né oggi, ha avuto il privilegio di poterne osservare gli schemi, le formule, le immagini disegnate. Un privilegio che anche allora era concesso a pochi, essendo lui, l'architetto, un uomo di cultura e di ingegno, ricercato e benestante abbastanza per non doverlo fare per necessità, forse semplicemente per riscattare il suo stato di uomo, "libero" di salire la scala sociale attraverso la grandezza e bellezza della sua arte. Così si era presentato, richiesto e ammirato, preceduto dalla sua fama, qui in Abella, crocevia di popoli, terra di mezzo, popolosa e ricca abbastanza da poterci costruire un'opera maestosa che lo avrebbe appagato e glorificato più di ogni altra cosa. Ed era anche quello che desiderava colui che lo aveva chiamato, uomo potente e ricco, cittadino e fiduciario di Roma, desideroso e ambizioso di arrivare sempre più in alto nella scala del potere. Ma i tempi erano stretti e bisognava fare in fretta. Nelle poco lontane terre di Capŭa e Puteoli maestosi anfiteatri già da un pezzo erano stati completati e la fama dei giochi, con i suoi possenti gladiatori, aveva già contagiato Roma. Mentre in quelle più vicine di Pompei e della rivale Nola già se ne intuivano le intenzioni di dotarsi dei magnifici e grandi nuovi edifici per spettacoli di intrattenimento tanto amati dal popolo. Perciò non c'era più tempo da perdere, bisognava procedere quanto prima e con celerità. Così lui ci stava rimuginando su: mica doveva per forza accettare quell'incarico? La tentazione a rinunciare già c'era stata prima, dopo le visite a quei due anfiteatri, e a quei pochi altri più lontani, che lo avevano tanto impressionato: c'era veramente tanto lavoro da fare per tirare su quelle strutture così imponenti. Imponenti, ma non nella bellezza, per lo meno quella bellezza alla quale lui, amante dell'estetica, profondo conoscitore di matematica e geometria, aspirava: eleganza, proporzioni e armonia delle forme, a partire dall'arena, fulcro di ogni cosa, dagli spettacolari combattimenti alle geometrie strutturali. Anche se la soluzione ce l'aveva per realizzare il suo anfiteatro in un sito di tanta bellezza naturale, i tempi erano comunque stretti per poterlo fare con quel processo lungo, fatto di traiettorie da tracciare confluenti in un unico tracciato dal quale si sarebbe innalzato il podio definendo un ovale perfetto. Ovale perfetto, non una linea semplicemente curvata fissando centri in più punti dell'asse, come aveva visto fare in quegli altri anfiteatri, ma l'ellisse quindi, l'unica geometria curva, a parte il cerchio (poco adatto agli scopi quali gli anfiteatri erano destinati) che gli avrebbe consentito di raggiungere un equilibrio formale in una struttura così grande e complessa. Ma lui sapeva anche, da matematico, disegnatore esperto e misuratore quale era, che per tracciarla sul campo era un lavoro lungo e complesso, che avrebbe sottratto buona parte del tempo rimasto. Rinunciare all'ellisse per anticipare i tempi e le consegne? Piuttosto rinuncio all'incarico! Pensava tra sé e sé. Ci pensava sin da quel giorno che aveva presentato il suo anfiteatro al ricco e potente committente, disegnandolo con tratti rapidi e precisi, tramite un lungo bastone di duro nocciolo selvatico appuntito in avanti, nella sabbia grigia e ferrosa, raccolta ai margini del fiume vicino, stesa umida, compatta e finissima, sul pavimento di pietre nella parte più luminosa dell'atrio della domus del nobile romano. E ci stava pensando anche per tutta quella notte, finché non gli apparve, nel primo sonno, dopo quello stato ansioso in cui era caduto, suo padre, suo primo maestro di vita e di studi, mentre gli veniva incontro tenendo in una mano due bastoncini diritti appuntiti, legati rispettivamente ai due estremi di una piccola corda sottile di intreccio di canapa, e nell'altra un terzo bastoncino anch'esso appuntito in un estremo. Così, quella visione, nel sonno, gli fece ricordare di quel gioco, che lo aveva tanto incuriosito e che il padre aveva utilizzato per insegnargli come in realtà era così semplice disegnare un ovale perfetto, cioè l'ellisse, senza perdersi in tanti cerchi e mille linee. Si svegliò di sobbalzo pensando a quel gioco e corse d'impeto a raccogliere un rametto liscio e dritto per tagliarlo in tre parti. Ne legò due alle estremità del laccio, che aveva sfilato da uno dei suoi sandali, e stendendolo, l'uno nella direzione opposta dell'altro, li appuntò così distanziati nel suolo umido, indurito dal freddo della notte. Poi ne estrasse uno per avvicinarlo all'altro di circa un quarto di quella distanza. Prese il terzo bastoncino, lo appoggiò al laccio tirandolo fino a stenderlo e facendolo scorrere lungo di esso, in modo da tenerlo sempre teso, da un'estremità dell'asse, sul quale erano allineati i due bastoncini fissi al suolo, fino ad arrivare all'altra. Fece lo stesso nel verso e sul piano opposto. Eccolo apparire l'ovale perfetto, l'ellisse, in un solco nerissimo dai bordi d'argento, illuminato dalla luna in quella fredda notte "abellana"(*) .
(*) Di Abella, antica città della Campania, oggi Avella.
Non abbiamo tracce di uno schema geometrico definitivo, o di regole codificate, per la costruzione degli anfiteatri, cosa che ci lascia pensare che gli architetti, che operavano nella romanità tardo-repubblicana e imperiale, seguissero uno schema che di volta in volta veniva adattato secondo l'evenienza. Uno schema provvisorio quindi, necessario per determinare l'esatta collocazione nel sito di costruzione, i costi della costruzione preventivando tempi, materiali, tecniche e manodopera da impiegare e, ovviamente, le dimensione in prospettiva del numero di spettatori che avrebbe dovuto accogliere durante gli spettacoli gladiatori e circensi. Uno schema di base abbastanza semplice, composto dalla combinazione di triangoli rettangoli, dimensionati e proporzionati ovviamente in funzione della forma, ovale o ellisse, che avrebbe dovuto assumere l'edificio. Così anche nel caso del nostro anfiteatro, che è arrivato fino a noi in uno stato di parziale conservazione, ma sufficiente per consentire di calcolarne le dimensioni in modo abbastanza attendibile, di cui lo schema semplificato è riconducibile, come è facilmente dimostrabile disegnando e misurando la sua arena, alla costruzione di due triangoli equilateri i cui lati sono pari alle dimensioni del suo asse minore (come si sa ogni triangolo equilatero è divisibile in due triangoli rettangoli proiettando qualsiasi vertice sulla propria base contrapposta). Cosa non certo casuale, ma voluta da chi cercava di raggiungere, non la grandiosità per dimensioni o per materiali pregiati impiegati, la bellezza della forma, la più equilibrata ed armonica possibile, inserita in un contesto geografico spettacolare, visto lo splendore della natura del paesaggio che lo avrebbe accolto e circondato. Una forma che comunque gli avrebbe dovuto consentire di raggiungere dimensioni tali da contenere 12000 spettatori e più, essendo quella di Abella una "terra di mezzo", prossima alla popolosa Campania Felix, di cui i romani andavano così fieri da farne la seconda patria, e abbastanza vicina a quelle popolazioni interne, fiere e bellicose, che amavano spesso mostrare le loro capacità guerriere esibendosi in cruenti giochi di combattimenti, da cui non poche volte si era dovuta difendere prima di passare sotto il protettorato di Roma. Eppure c'è chi ha scritto e parlato di un numero di capienza di pubblico molto inferiore, riportando persino misure errate della struttura, lasciando intendere che si trattasse di un anfiteatro minore e di scarsa rilevanza. Sbagliando clamorosamente, secondo me, per sottostima. Ce lo dimostrano i suoi numeri al confronto con quelli del più prossimo ad esso per età, forma e vicinanza geografica, l'assai più noto anfiteatro di Pompei, conservato quasi intatto sotto le ceneri del Vesuvio, di cui, proprio per questa ragione, se ne è potuta determinare quasi con certezza la capienza.
Se per l'anfiteatro pompeiano, che presenta queste dimensioni: lunghezza degli assi 135 m e 104 m, superficie complessiva 10.700 mq, superficie arena 1.950 mq, superficie cavea 8.750 mq, si è potuto contare un numero di 20.000 spettatori, di conseguenza l'anfiteatro avellano, che ha queste altre dimensioni: lunghezza degli assi: 112 m e 83 m, superficie complessiva 7.250 mq, superficie dell'arena 1.750 mq, superficie cavea 5.500 mq, in proporzione, e arrotondando per difetto, avrebbe avuto, una volta completato, una capienza di 12000 spettatori.
Era già stato tutto stabilito, dimensionamento e capienza, né si poteva fare diversamente, visto che il magistrato aveva messo a disposizione quell'area e le risorse economiche necessarie per poterlo costruire, nel tempi occorrenti per quel tipo di costruzione così imponente e impegnativa, e comunque il prima possibile per potersi glorificare e offrire spettacoli gladiatori e circensi che così tanto appassionavano da coinvolgere migliaia e migliaia di persone, utile anche per guadagnarsene i favori. Il progetto non era scritto, ma c'era tutto nella sua testa, visto che più volte ne aveva mostrato lo schema disegnandolo con un lungo bastone appuntito sulla sabbia finissima stesa sottile e compatta nella parte più luminosa dell'atrio della domus del magistrato romano.
L'architetto e il suo anfiteatro. Una notte "abellana" di tanto tempo fa. L'architetto dell'anfiteatro conosceva molto bene la geometria, la matematica, la topografica, la logistica, la contabilità, e certamente era un esperto nella tecnica del disegno (così racconterà, dopo qualche anno, Vitruvio nel descrivere la figura del bravo architetto nel suo De Architectura), tanto da saper rappresentare l'opera da realizzare non soltanto con piante e prospetti, ma anche attraverso "prospettive" colorate, per dare al committente "l’impressione" dell’opera finita. Peccato che di questi lavori preparatori ci sia arrivato ben poco, quasi nulla, tranne qualche testimonianza in ritagli di dipinti murali e mosaici, o qualche descrizione scritta in rari testi. Lo stesso Vitruvio, il maggior documentarista sull'architettura antica, non è abbastanza esaustivo sull'argomento. Così dell'anfiteatro di Abella, e di tutti gli altri, nessuno, né ieri e né oggi, ha avuto il privilegio di poterne osservare gli schemi, le formule, le immagini disegnate. Un privilegio che anche allora era concesso a pochi, essendo lui, l'architetto, un uomo di cultura e di ingegno, ricercato e benestante abbastanza per non doverlo fare per necessità, e forse semplicemente per riscattare il suo stato di uomo, "libero" di salire la scala sociale attraverso la grandezza e bellezza della sua arte. Così si era presentato, richiesto e ammirato, preceduto dalla sua fama, qui in Abella, crocevia di popoli, terra di mezzo, popolosa e ricca abbastanza da poterci costruire un'opera maestosa che lo avrebbe appagato e glorificato più di ogni altra cosa. Ed era anche quello che desiderava colui che lo aveva chiamato, uomo potente e ricco, cittadino e fiduciario di Roma, desideroso e ambizioso di arrivare sempre più in alto nella scala del potere. Ma i tempi erano stretti e bisognava fare in fretta. Nella poco lontana Capua il maestoso anfiteatro era già da un pezzo completato e la fama dei giochi, con i suoi possenti gladiatori, aveva già contagiato Roma. Nella più vicina Pompei le basi del suo anfiteatro erano già complete, mentre il podio già si ergeva alto a delimitare l'arena. Persino Nola, la rivale di sempre, tanto vicina e tanto odiata, ne aveva annunciato la sua costruzione. Perciò non c'era più tempo da perdere, bisognava procedere quanto prima e con celerità. Così lui ci stava rimuginando su: mica doveva per forza accettare quell'incarico? La tentazione a rinunciare già c'era stata prima, dopo le visite a quei due anfiteatri, e a quei pochi altri più lontani, che lo avevano tanto impressionato: c'era veramente tanto lavoro da fare per tirare su quelle strutture così imponenti. Imponenti, ma non nella bellezza, per lo meno quella bellezza alla quale lui, amante dell'estetica, profondo conoscitore di matematica e geometria, aspirava: eleganza, proporzioni e armonia delle forme, a partire dall'arena, fulcro di ogni cosa, dagli spettacolari combattimenti alle geometrie strutturali. Anche se la soluzione ce l'aveva per realizzare il suo anfiteatro in un sito di tanta bellezza naturale, i tempi erano comunque stretti per poterlo fare con quel processo lungo, fatto di traiettorie da tracciare confluenti in un unico tracciato dal quale si sarebbe innalzato il podio definendo un ovale perfetto. Ovale perfetto, non una linea semplicemente curvata fissando centri in più punti dell'asse, come aveva visto fare in quegli altri anfiteatri, ma l'ellisse quindi, l'unica geometria curva, a parte il cerchio (poco adatto agli scopi quali gli anfiteatri erano destinati) che gli avrebbe consentito di raggiungere un equilibrio formale in una struttura così grande e complessa. Ma lui sapeva anche, da matematico, disegnatore esperto e misuratore quale era, che per tracciarla sul campo era un lavoro lungo e complesso, che avrebbe sottratto buona parte del tempo rimasto. Rinunciare all'ellisse per anticipare i tempi e le consegne? Piuttosto rinuncio all'incarico! Pensava tra sé e sé. Ci pensava sin da quel giorno che aveva presentato il suo anfiteatro al ricco e potente committente, disegnandolo con tratti rapidi e precisi, tramite un lungo bastone di duro nocciolo selvatico appuntito in avanti, nella sabbia grigia e ferrosa, raccolta ai margini del fiume vicino, stesa umida, compatta e finissima, sul pavimento di pietre nella parte più luminosa dell'atrio della domus del nobile romano. E ci stava pensando anche per tutta quella notte, finché non gli apparve, nel primo sonno, dopo quello stato ansioso in cui era caduto, suo padre, suo primo maestro di vita e di studi, mentre gli veniva incontro tenendo in una mano due bastoncini diritti appuntiti, legati rispettivamente ai due estremi di una piccola corda sottile di intreccio di canapa, e nell'altra un terzo bastoncino anch'esso appuntito in un estremo. Così, quella visione, nel sonno, gli fece ricordare di quel gioco, che lo aveva tanto incuriosito e che il padre aveva utilizzato per insegnargli come in realtà era così semplice disegnare un ovale perfetto, cioè l'ellisse, senza perdersi in tanti cerchi e mille linee. Si svegliò di sobbalzo pensando a quel gioco e corse d'impeto a raccogliere un rametto liscio e dritto per tagliarlo in tre parti. Ne legò due alle estremità del laccio, che aveva sfilato da uno dei suoi sandali, e stendendolo, l'uno nella direzione opposta dell'altro, li appuntò così distanziati nel suolo umido, indurito dal freddo della notte. Poi ne estrasse uno per avvicinarlo all'altro di circa un quarto di quella distanza. Prese il terzo bastoncino, lo appoggiò al laccio tirandolo fino a stenderlo e facendolo scorrere lungo di esso, in modo da tenerlo sempre teso, da un'estremità dell'asse, sul quale erano allineati i due bastoncini fissi al suolo, fino ad arrivare all'altra. Fece lo stesso nel verso e sul piano opposto. Eccolo apparire l'ovale perfetto, l'ellisse, in un solco nerissimo dai bordi d'argento, illuminato dalla luna in quella fredda notte "abellana".
Una cosa era il disegno dell'ellisse in piccola scala, utilizzando il metodo che gli aveva insegnato suo padre, un'altra cosa la sua costruzione in scala reale utilizzando quel sistema di costruzione empirico. 213 piedi di lunghezza e 110 di larghezza, erano misure considerevoli per un'area da perimetrare, intorno alla quale costruire l'anfiteatro che il Magistrato romano voleva regalare alla città di Abella, a seguito della suo nomina; sperando che arrivasse anche quella di Cavaliere per suo figlio, e altri successi personali nella scalata sociale e di potere, così da poterli festeggiare con sorprendenti e spettacolari eventi gladiatori che la stessa Roma ancora non conosceva.
lo scriba, l'archĭtectus, l'ideatore di uno tra i primi e più originali anfiteatri dell'antichità.
Farlo con i tradizionali strumenti topografici per misurare distante e angoli (regolo, squadro, groma, compasso, livella), applicando le formule trigonometriche, che pure bene conosceva, era un procedimento lungo e laborioso, a maggior ragione se si trattava di realizzare quella curva perfetta alla quale aspirava. Farlo in modo pratico, ma preciso, come in quella notte tormentata, fredda e luminosa, con ancora negli occhi la presenza di suo padre apparso in sogno, era molto più complicato in dimensione reale.
Il problema non era trovare la corda, che comunque doveva avere una lunghezza di ben 213 piedi, ma come poterla manovrare agevolmente, una volta legate le sue estremità ai due picchetti indicanti i fuochi sull'asse maggiore della futura arena, per determinare i punti nei quali conficcare i picchetti per la delimitazione e costruzione del muro intorno all'arena, dal quale sarebbe poi scaturita tutta la costruzione geometrica dell'anfiteatro.
Stava fissando ancora quel solco ellittico, con stretti nelle mani il laccio sottratto al suo sandalo e i tre bastoncini che aveva usato nel disegnare quella forma ancora ben marcata nel suolo, quando gli balenò l'idea che avrebbe potuto utilizzare un anello di ferro, nel quale far scorrere la lunga corda. Un anello agganciato a un altro anello, più grande e tale da contenere il picchetto di legno ben appuntito, a sua volta unito a un anello più piccolo legato a un'altra corda, da utilizzare per mettere in trazione quel sistema che avrebbe consentito di picchettare tutta l'arena in modo semplice, veloce ed efficace. Convinto, sicuro e fiducioso, si precipitò in cantiere per ordinare al fabbro di costruirgli quell'arnese fatto di tre semplici anelli.
Il sole si era appena levato, ma non c'era tempo da perdere. Aveva fretta il Magistrato di Abella, ancor di più fremeva lui, lo scriba, l'archĭtectus, l'ideatore di uno tra i primi e più originali anfiteatri dell'antichità.
Mi piace immaginare che l'architetto di allora, dopo aver individuato l'area più congeniale alla costruzione e averla fatta spianare, predisponendola ad accogliere la struttura nella direzione NE-SO, così da appoggiarla in modo tale da sfruttarne la pendenza per il meglio lungo il lato lungo, si sia posizionato al suo centro per far conficcare proprio lì un robusto paletto, intorno al quale si sarebbe sviluppata poi concretamente tutta la sua visione progettuale.
I parte.
Tutto è nato da lì, da quel palo conficcato al centro di quel terreno spianato di fresco. (Post della pagina Facebook del 3 Giugno 2020)
La posa del cippo, un momento di grande emozione.
A parte il gran lavoro che c’era stato in precedenza per spianare, tagliare alberi, sradicare, spostare massi e detriti alluvionali, demolire vecchi ruderi di abitazioni abbandonate da tempo - testimonianza di un passato ricco e di vicende bellicose anche drammatiche all'interno delle vecchie mura della città più antica - e a parte tutta la mole di lavoro, che da lì in poi ci sarebbe stata con il cospicuo impiego di maestranze, strumenti, attrezzi e macchine da costruzione di ogni tipo, quello della posa del cippo al centro dell’arena del futuro anfiteatro (vicino al quale sarebbe stato conficcato poi il palo con in testa lo strumento che gli abellani avevano ricevuto in dotazione già dai loro antenati di antica discendenza etrusca, la gruma) era certamente il momento più importante ed emozionante per un popolo in ripresa, in modo particolare per il progettista, che vedeva finalmente l’inizio del materializzarsi di quel grandioso edificio, esempio così raro nella vasta “Campania Felix”, di cui non si conoscevano di simili neppure in tutto il vasto mondo di cui Roma era padrona. (Post della pagina Facebook del 5 Giugno 2020)
La direzione degli assi.
Doveva essere primavera inoltrata quando iniziarono i lavori di spianamento e movimenti di terra per la costruzione dell'Anfiteatro. La direzione dell'asse maggiore era già stata decisa da tempo e nulla era stato lasciato al caso proprio per la straordinarietà di quell' intervento. Abella, città indomita e fiera, sotto il protettorato di Roma e sua provincia da più di un secolo, in pieno splendore, era illuminata da un sole alto all' orizzonte ma che spuntava appena al di là dei suoi alti monti. Quel sole, in quel punto, era la posizione a cui bisognava mirare, quando il topografo posizionò il suo strumento al centro della spianata. (Post della pagina Facebook del 11 Giugno 2020)
II parte.
Erano trascorsi circa due secoli dall'edificazione del primo tracciato murario dell'antica città di Abella. Mentre si stavano portando a compimento i lavori di restauro di quella vecchia cinta, con ampliamento per inglobare anche il nuovo edificato, iniziavano i lavori per la costruzione dell'anfiteatro, segno di rinnovato splendore per una città che aveva subito un dura crisi politica, economica e militare.
Le maestranze erano all'opera per completare nei tempi stabiliti lo spianamento del suolo, il sole era sufficientemente alto da sporgersi dagli alti monti proiettando un'ombra lunga dall'asta verticale con su in testa la groma, ben salda e ancorata al cippo, che indicava proprio quella direzione dove sorgeva il sole. Quella stessa direzione che gli agrimensori romani già conoscevano da quando si erano apprestati a frazionare il suolo per l'insediamento dei presidi militari, per tracciare l'asse maggiore delle nuove città da far nascere o da romanizzare e per dividere in centuratio il territorio da assegnare ai valorosi comandanti delle legioni conquistatrici. Quella direzione era anche la stessa dell'asse principale che la città di Abella aveva assunto a seguito del riassetto urbanistico conseguente alla sua romanizzazione. L'asse, di direzione Est in quel punto, e in quel vasto territorio, aveva una inclinazione verso Nord che noi oggi possiamo denominare di 15°, ma che ai misuratori del tempo interessava ben poco definirlo così, visto che per loro l'utilità era conoscere l'angolo retto, cioè le direzioni ortogonali, e ovviamente quella perpendicolare per erigere le costruzioni in altezza, dividendolo praticamente in multipli e sottomultipli. Fu proprio a questa operazione che l'architetto campano costrinse il geometra romano. Infatti al nostro progettista interessava che l'asse prendesse tutt'altra direzione, spiegando al perplesso interlocutore che l'ombra proiettata era troppo lunga e fin troppo in asse, mentre la brezza di terra, che di tanto in tanto, incrinando i piombi del prezioso strumento, li spostava nella direzione opposta all'asse. Troppo diverso, e sbagliato, per ciò che aveva previsto e studiato. Così d'impulso, impugnando lui stesso l'asse, impresse allo strumento quella rotazione, più coerente al suo progetto, rivolta verso nord-est, cioè in quella gola dove i monti più si allontanavano e più si innalzavano, per realizzare quel grandioso edificio da poter essere contenuto in quell'angusto spazio proprio a ridosso di quelle mura rimesse a nuovo. Oggi, con i nostri strumenti e metodi di misurazione, lo indichiamo in direzione di 55° da Est in direzione Nord. Lo scopo a lui era ben chiaro, quello di adattare meglio il suo edificio alle caratteristiche geomorfologiche, meteorologiche e di illuminazione del luogo prescelto.
Continua. (Post della pagina Facebook del 29 Giugno 2020) Dimensioni dell'arena, piede più piede meno.
Dal confronto tra immagini e planimetrie varie, risulta che le dimensioni dell'asse maggiore dell'arena dell'anfiteatro avellano è di 213 piedi (63 m circa) mentre quello minore di 118 piedi (circa 35m). Giusto per capirne la portata, quelle del Colosseo sono rispettivamente 270 piedi (79m) e 162 (47m).
Sono state determinate geometricamente tracciando le tangenti nei 4 punti estremi della curva dell'arena. Seguirà aggiornamento. Centro e fuochi.
Il punto di incrocio tra l'asse maggiore e quello minore determina il centro C dell'arena. Puntando nel centro C possiamo tracciare la circonferenza inscritta nell'arena e quella che la circoscrive. Traslando perpendicolarmente la circonferenza maggiore, e cioè quella che ha per diametro l'asse maggiore, in modo da far coincidere il suo centro C nel punto C' oppure C'' si ottengono, nella sua intersezione con l'asse maggiore, i punti F e F', chiamati i fuochi dell'arena, con cui possiamo verificare se l'andamento della curva della nostra arena è costante, definendo così una ellisse o diversamente un ovale se discontinuo.
Volendoli anche misurare possiamo dedurre che essi sono a una distanza di 28,22m dal centro C. La funzione dei fuochi.
La funzione dei fuochi.
Una volta che abbiamo intercettati i fuochi F e F' lungo l'asse maggiore dell'arena del nostro anfiteatro, possiamo verificare come la somma della distanza di qualsiasi punto P, appartenente alla curva di delimitazione dell'arena, rispetto a F e F' sia la stessa per ognuno di essi e che essa sia proprio pari alla lunghezza dell'asse maggiore, cioè nel nostro caso 63m. Infatti nell'immagine riprodotta, che rappresenta in scala l'anfiteatro di Avella con la sua arena, possiamo verificare come per esempio il punto P1 sia distante dal fuoco F 22,25m e dal fuoco F' 40,75m e che la somma di queste distanze sia proprio 63m. Lo stesso dicasi per il punto P2 la cui distanza da F è 44,24 e da F' 18,76m, la cui somma è anch'essa 63m. Come si può anche facilmente verificare che le distanze dei punti P', simmetrici rispetto all'asse maggiore siano proprio le stesse dei punti P. Proseguendo così, quindi, per ogni punto della curva che circoscrive l'arena, possiamo verificare che tutti rispondono a questa regola che definisce un curva ovale perfetta come ellisse. L'arena ellittica dell'anfiteatro avellano. Oltre la matematica c'è la geometria a dimostrarla.
La geometria descrittiva ci dà la prova definitiva del disegno ellittico dell'arena dell'anfiteatro, che mi piace definire non Romano, non Campano ma più propriamente Avellano per la sua perfezione.
Utilizziamo lo stesso schema, con il quale abbiamo dimostrato la forma ellittica dell’arena, visto che preso ogni punto P del bordo dell'arena la somma della sua distanza dai due fuochi dà sempre lo stesso risultato 63m - lunghezza dell'asse maggiore – per dimostrarlo anche geometricamente. Infatti, prendendo un punto P qualsiasi dell'estremo dell'arena, per esempio P2, e proiettandolo parallelamente all'asse verticale sul cerchio che circoscrive l'arena, otterremo il punto P2A. Lo stesso punto P2 lo proiettiamo parallelamente all'asse orizzontale sul cerchio inscritto all'arena, ottenendo il punto P3A. Unendo anche i due punti P2A e P3A otteniamo un segmento che prolungato verso l'interno dell'arena incrocia proprio il punto C, che rappresenta il suo centro. Applicando lo stesso procedimento per tutti i punti estremi dell’arena, otterremo tutti segmenti che convergono verso il centro C. La dimostrazione questa che anche attraverso la costruzione geometrica, l'ellisse resta confermata come forma dell'arena. A questo punto la domanda è: con quale metodo l'architetto dell'epoca, dopo averla pensata così perfetta, sia riuscito a realizzarla altrettanto perfettamente suol luogo prescelto?
In aggiornamento.
La sua posizione sulla via che collegava e collegano tuttora la pianura Campana con la valle del Sabato e pertanto con il Sannio lrpino, anche se meno agevole e di minore importanza della Via Appia (che utilizzavano il valico di Arpaia) e la coltivazione pregiata della "nux abellana" (nocciola) nel suo territorio non particolarmente esteso costituivano pur sempre una risorsa economica. alla quale dovevano certo aggiungere lo sfruttamento dei boschi e l’allevamento nelle zone più alte.
L’unico avvenimento storico di un certo rilievo di cui sappiamo dalle fonti scritte è la fedeltà a Roma durante la guerra sociale (91-89 a.C.) che fu punita nell’87 a.C. con la distruzione da parte dei sanniti che ancora occupavano Noia. Mentre le testimonianze di epoca preistorica -- nella fattispecie si tratta di vasi e frammenti del periodo di transizione fra l'età del rame (encolitico) e l’eta del bronzo, intorno al 2000 a.C. -- poco contribuiscono, data la loro scarsità e il costume casuale della loro scoperta, alla ricostruzione di tale periodo storico, si può avere un quadro più organico, anche se tutt'ora assai lacunoso, dal periodo intorno al 700 a.C. Siamo all'epoca iniziale della colonizzazione greca lungo le coste della Campania. che ha portato già a vivaci scambi con gli etruschi insediatisi già prima a Capua e forse a Nola, e con le popolazioni italiche -- nella fattispecie gli Oschi -- in parte in via dl etruschizzazione. ma in gran parte anche gelose delle loro tradizioni culturali. Di tutta la prima metà dcl VII secolo a,C conosciamo solo oggetti sporadici, che provengono da un settore della necropoli in cui non è stata ancora possibile un’indagine scientifica, ma di cui alcuni non importanti come testimonianza di rapporti esterni. Una oinochoe con decorazione geometrica data bile verso il 700 a.C. Imita modelli corinzi ed è stata importata evidentemente da Cuma, ed un askòs della stessa epoca, in uno stile geometrico di carattere assai diverso proviene dalla Daunia come altri vasi analoghi da Caudium (Montesarchio). Suessula (Cancello) e Pitecusa (Ischia). Relativamente ben conosciuto è invece il periodo orientalizzante recente (650-545 a.C. circa), del quale è stato scavato un notevole numero di tombe sia nella necropoli NE. (località S. Paolino e zone attigue) sia ad Ow. della città antica (località S. Nazzaro), mentre non conosciamo ancora nulla delle aree abitate, anche se ritrovamenti fortuiti in località Campopiano potrebbero far pensare a nuclei scarsi. Le tombe finora note sono ad inumazione a fossa semplice e contenevano spesso ricchi corredi con ceramica locale e vasi importati. Contrariamente a quanto avviene nella vicina Nola, dove le ceramiche di gran lunga prevalenti sono in tale periodo il bucchero e le imitazioni di vasi corinzi, con le stesse forme che si sono trovate anche a Capua il che sembra confermare ‘I carattere etrusco della città, ad Avella prevalgono i vasi d’impasto a superficie nerastre. Mentre le olle a bombarda. di solito con quattro prese spesso unite da un cordoncino, sono come in gran parte dell’italia centro-meridionale la forma più frequente della ceramica comune; fra i vasi da tavola sono particolarmente caratteristiche le coppe a due anse, le coppe su alto piede a trafori circolari, le tazze con ansa cornuta. gli askòi, le anfore con collo a clessidra ed abbastanza frequenti le brocche, in parte con bocca trilobata. Il motivo decorativo più tipico, che ricorre soprattutto sulle coppe e sulle anfore, e una lambda a rilievo, mentre in altre forme la decorazione è incisa o impressa con la rotella dentata; tra gli oggetti di ornamento personale in bronzo o in ferro le fibule sono dei tipi più diffusi in Campania e mentre nelle tombe maschili prevale quella ad arco insellato con ghiande sul lati, in quelle femminili è comune l’arco semplice. talvolta a navicella. con staffa allungata. Fra gli oggetti importati troviamo innanzitutto vasi d bucchero. dì forme diffuse a Capua e Noia, dei vasi, soprattutto coppe in impasto a superficie bruna-rossastra molto curata con decorazione impressa a rotella. anch'essi comuni nei centri etruschi della Campania. dei balsamarì (arvballoi e hombylioi che imitano tipi corinzi nella forma e nella decorazione. ed un aryballos globulare corinzio dcl 1° IV dcl VI sec. Come si vede, quindi Abella rientra fra quei centri, ad economia sostanzialmente agricola in cui sopravvive la cultura locale, la quale, per le forme più tipiche della ceramica d’impasto strettamente affine a quella che troviamo contemporaneamente subito a Nord ‘a Caudium (Montesarchio). il che potrebbe far pensare a rapporti molto stretti e anche di parentela etnica fra le popolazioni dell’alta valle del Clanis, in cui si trovava Abella, e della valle Caudina, Molto meno informati siamo invece per il periodo successivo fino agli inizi dcl V secolo, per il quale solo alcuni oggetti d’importazione greca, tra i quali delle tazze ioniche prodotti a Velia dopo il 540 a.C.. o etrusca dimostrano che la vita continuata. Un corredo purtroppo isolato della prima metà del V secolo comprende esclusivamente vasi d’argilla figulina. in parte con decorazione a figure nere, che non si distingue in niente da quanto è attestato contemporaneamente a Noia, a Capua e in altri centri ormai etruschizzati della Campania. Viceversa conosciamo alquanto di più del periodo successivo in cui Abella era, come il resto della regione. sotto l’egemonia sannitica e in cui, al più tardi, assunse carattere di Città, come dimostra i resti di abitazioni trovati a N. dell'anfiteatro. L'area urbana, di circa 25 ettari di estensione (la metà circa di Pompei), occupava una zona leggermente sopraeleva a S. della fuoriuscita del fiume dalle montagne e abbastanza portata dalle alluvioni, che hanno esercitato anche nell’antichità. effetti devastanti tutt'intorno, e l’impianto urbanistico ortogonale che ci è in parte pervenuto sembra essere stato almeno regolarizzato dopo la distruzione dell’87 a.C. Delle mura conosciamo abbastanza bene il tracciato ad andamento regolare di tutta la metà orientale e la sola parte ben conservata, incorporata nell'anfiteatro, è in opera cementizia con parametro in a opus incertum con blocchetti irregolari di varie dimensioni, per cui può essere datata dopo la seconda guerra punica, che interessò più direttamente la vicina Nola, e quindi al Il secolo a.C. Di un santuario che si trovava fuori della città ad occidente, nella zona di S. Candida, è testimonianza un deposito votivo con statuette d terracotta e ceramica a vernice nera, solo in parte esplorato. Come le fondazioni delle case, anche le tombe del periodo sannitico finora messe in luce sono per lo più in grandi blocchi di tufo uniti senza malta e generalmente del tipo a cassa. Quelle del IV secolo inoltrato a.C. hanno dato in parte ricchi corredi con vasi a vernice nera ed altri a figure rosse. Di questi si sono voluti attribuire alcuni, del gruppo del «pittore delle Danaidi» ad officine avellane, ma non è per il momento possibile confermare tale ipotesi, sia perché provengono da scavi eseguiti nel secolo scorso senza controllo scientifico, sia perché ad Avella e a Noia quel che conosciamo è ancora troppo poco per attribuire alluno o all'altro centro tale produzione. Significative sono però le importazioni da Cuma. da Capua e, caso raro nella Campania vera e propria, da Paestum, mentre i vasi di officine attiche sono pervenuti così come anche in altre città della Campania e del Sannio, evidentemente tramite Neapolis. Di un certo interesse sono anche delle coppe biansate di bronzo di un tipo non ancora noto in altri centri Campani. Altri oggetti di bronzo, quali le fibule ed i cinturoni con ganci ornati da palmette fanno parte del costume femminile e maschile Sannitico. Nella necropoli di S. Nazzaro è stato trovato un gruppo di tombe a camera di famiglie delle classi agiate a più deposizioni, i cui corredi si differenziano da quelli delle sepolture precedenti per la prevalenza di balsamari fusiformi per lo più in terracotta, ma in qualche caso anche di alabastro e di provenienza egiziana, e per la presenza di strigili, che sono testimonianza della sostituzione dell’ideologia del banchetto prevalente prima nel rito funebre con gli ideali efebici in un periodo in cui di passo con l’affermazione dell’egemonia di Roma in Campania e le oligarchie locali coinvolte anche nelle attività commerciali derivanti dall'espansione romana in oriente tengono ad aggiornarsi nell'adorazione delle concezioni e mode di provenienza greca. Ad una comunque assai discutibile introduzione di terminologie romane anche nelle istituzioni, che in una «civitas federata» come Abella rimasero fino al termine della guerra sociale quelle osco-sannitiche, si è potuto pensare a proposito del «senatus» menzionato nel famoso cippo Abellano, un trattato fra Avella e Nola relativo ad un santuario di Ercole di proprietà comune, che è uno dei più importanti documenti in lingua osca a noi pervenuti. Non molto dopo la distruzione viene dedotta ad Abella, così come a Nola ed a Pompei, una colonia da parte di Silla. Ne è testimonianza la spartizione dei terreni da attribuire ai coloni (centuriazione) nella parte in pianura del territorio che non è altro che la coltivazione di quella del territorio nolano di cui si sono conservate alcune delle vie principali e tracce di altro. Sono infatti riconoscibili ed in parte ricostruibili tre «decumani» in direzione E.O. e otto «Cardines» in direzione N.S. che delimitavano quei quadrati di m. 715 per lato (centuriae) costituiti da cento particelle da due iugeri, anche se quote singole erano in quest’epoca alquanto superiori a tale misura, mentre le vie principali della città ed anche quelle d. collegamento con altri centri conservavano un orientamento diverso. Nella città sorsero fin dall'età tardo-repubblicana edifici pubblici e furono ricostruiti quelli privati, anche se in qualche area periferica quale quella attigua all'anfiteatro subentrarono: degli orti al posto di abitazioni, il che è da mettere in rapporto con l’accentrazione sempre maggiore della popolazione. specie in un centro senza grandi attività economiche oltre l’agricoltura e l’allevamento, nelle ville rustiche del territorio che erano i centri di latifondi gestiti con schiavi. Tra questi edifici - meglio noto è l’anfiteatro eretto a giudicare dalle strutture in «opus reticulatum» di tufo non molto dopo la deduzione della colonia, come quella di Pompei. di cui ricalca all'incirca le dimensioni. Esso fu appoggiato all'angolo SE. delle mura ed in parte al pendio naturale, e solo la parte S. poggia su grosse costruzioni a volta, mentre l’arena si trova sotto il livello circostante; sono ben conservati i due vomitorii principali nell'asse maggiore dell’ellisse (itinera magna) con degli ambienti laterali, e il podio che divideva la curva dall'arena, e dei sedili in tufo dell’ima cavea interrotti in corrispondenza dell’asse minore da podii (tribunali); è rimasto abbastanza per permettere la ricostruzione. Un’immagine schematica, ma viva dell’edificio, ci è pervenuta sul fianco di una base onoraria di età imperiale. Nel tardo impero fu iniziata la costruzione di stalle per bestie nel podio, poi rimasta interrotta dagli eventi che precipitarono con la dissoluzione dell’impero romano di Occidente. Nella zona del Santissime » sono conservate imponenti costruzioni a volta di un edificio probabilmente pubblico che era forse in rapporto con la piazza del foro che vari indirizzi fanno supporre nelle vicinanze della chiesa di S. Pietro. Nel territorio la cui produzione più importante era quella delle nocciole sono in parte in rapporto con ville rustiche in collina ed in parte lungo le strade che uscivano dalla città e con quelle della «centuriazione», vari monumenti funerari di età tardo-repubblicana e del I sec. dell’impero, evidentemente di famiglie dell' «Ordo» (notabilato) e di altre che possedevano terreno. La loro tipologia trova riscontro in quella che troviamo contemporaneamente nelle necropoli di altre città campane, qua l Pozzuoli, Cuma, Capua, Pompei e prevale lo schema di un corpo quadrato con o senza camera sepolcrale e sormontato da una edicola o da un piano superiore circolare o poligonale terminato da una cuspide, mentre il tipo circolare con camera circolare e una eccezione relativamente antica. Nel monumento con edicola nel recinto del campo sportivo è stata trovata anche la testa -- ritratto del defunto, in calcare locale, dell’inizio di età imperiale. Nel tardo impero, Abella sembra essersi gradualmente dissolta come città in seguito alle invasioni, quali quella di Alarico, il quale distrusse Noia. Abbiamo testimonianze di un edificio di culto cristiano di carattere cimiteriale in località S. Paolino, forse costruito o restaurato quando costui era vescovo di Noia ed anche la chiesa di S. Pietro attorno alla quale si creò uno dei nuclei dell’abitato medioevale, risalente forse come origine ad epoca tardo-antica.
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Gli anfiteatri, le prime grandi costruzioni in muratura destinate a spettacoli di lotte tra gladiatori, caccia ad animali, battaglie navali o altri spettacoli che necessitavano di grandi spazi. Nacquero nell'epoca di dominio romano, ma prima che a Roma furono costruiti, perfezionati e diffusi nei territorio della Campania Felix, crocevia di popoli antichi - Greci, Etruschi, Sanniti e Lucani - prima di passare definitivamente sotto il dominio romano tra il IV e III s. a.C.
Erano costruzioni imponenti che richiedevano risorse economiche cospicue e tecniche costruttive avanzate, che probabilmente allora solo quelle terre ricche economicamente e abbondantemente popolate potevano offrire. Testimonianza ne è anche il fatto che per il primo anfiteatro in pietra nella città di Roma si dovette aspettare il 29 a. C. e soltanto nell'80 d.C. fu costruito l'anfiteatro Flavio o Colosseo, anche se fu poi il più perfetto per i servizi e il più imponente e monumentale nella forma.
Fatto sta che in Campania di imponenti e funzionali si iniziò a costruirli già a partire dal II e I s.a.C. a Cuma, Pompei, Avella, Capua. In Campania se ne contano ben 13 di epoca tra il II a.c. e I s. d.C.. In Italia se ne hanno testimonianza e conoscenza di circa 70 e di altri 160 nel resto del mondo, per un totale di 230 anfiteatri di cui una cospicua quantità ne restano tracce interrate o disperse sotto edifici e strade soprastanti. Se consideriamo che soltanto una trentina hanno dimensione massima superiore ai 100 metri ne possiamo anche dedurre che quello di Avella, con i suoi 112 m. è uno tra i più importanti in ordine di grandezza, oltre ad esserlo per epoca costruttiva. |
A cura di Armando Sodano
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